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Petrolio: cosa sta accadendo e quali sono gli scenari per il 2022 (prima parte)

di FTA Online News pubblicato:
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Il prezzo del petrolio è risalito brillantemente nel corso dell’ultimo mese. Quali sono ora le prospettive? Nuovo calo in vista o possibile ritorno sui record del 2021? 

Petrolio: cosa sta accadendo e quali sono gli scenari per il 2022 (prima parte)

Lo scorso martedì 4 gennaio, la riunione OPEC+ ha deciso di aumentare la produzione per il mese di febbraio di 400.000 bpd (barrel per day), in linea con la politica già stabilita dal cartello e ratificando sostanzialmente quanto stabilito nella riunione del 2 dicembre scorso.

Petrolio: cosa può accadere dopo l’ultima riunione OPEC+

La decisione conferma, da un lato, una cauta fiducia nella ripresa della domanda globale, dall’altro la convinzione che la variante Omicron costituisca una minaccia minore rispetto alle altre varianti (anche se più contagiosa) e non dovrebbe compromettere quindi l’andamento della domanda di greggio.

Inoltre, secondo una nota di stampa, vi sono state pressioni da parte USA di aumentare l’offerta complessiva per evitare l’incremento eccessivo del prezzo e tentare di porre così un freno all’aumento del costo del carburante alle pompe di benzina che avrebbe come irrimediabile conseguenza quella di un elettorato sempre più indispettito.

Una nota di stampa ha altresì comunicato che, nel corso del meeting, è emersa una certa difficoltà da parte di alcuni paesi, e segnatamente Nigeria, Angola e Russia, nel raggiungere la maggiore quota di produzione richiesta. Sembra quindi che l’output effettivo previsto sarà inferiore a quello nominalmente previsto dalla decisione del cartello, alcuni analisti ipotizzano incrementi solamente di 130.000 barili giornalieri nel mese di gennaio e di altri 250.000 nel mese di febbraio. La produzione di petrolio nei primi tre mesi dell’anno dovrebbe superare la domanda mondiale di 1,4 milioni di barili al giorno (la valutazione precedente era di 1,9 milioni). Aumentare la produzione nonostante la situazione di surplus non preoccupa l’Opec dal momento che attualmente le scorte dei paesi sviluppati sono più basse, di circa 85 milioni di barili, rispetto alla media passata.

Petrolio e gas: Prezzi sotto pressione

Nel complesso le scorte mondiali a disposizione, quelle ad inventario, si sono infatti ridotte drasticamente nel corso del periodo pandemico. Negli USA si stimano ridotte di circa 75 milioni di barili solo nel 2020. Da qui anche la preoccupazione degli Stati Uniti nel caso in cui dovesse persistere o aumentare la domanda globale, vista la ridotta capacità produttiva di alcuni paesi nel raggiungere la quota di bpd stabilita dal cartello e la drastica riduzione complessiva delle scorte.

Indipendentemente da considerazioni di politica monetaria che la Fed adotterà per cercare di arginare il tasso di inflazione, oggi vicino al 7%, non vi è dubbio che petrolio e gas si trovano sotto una pressione di tendenza al rialzo dei prezzi.

E la motivazione è riconducibile sostanzialmente al Ciclo del Capitale tipico del settore petrolifero, che ha visto dal 2014 in poi, una drastica riduzione delle spese a titolo di investimento, le Capex, soprattutto da parte delle grandi imprese appartenenti all’upstream.

Secondo S&P Capital IQ, le major del settore, che avevano triplicato tra il 2004 e il 2014 le spese a titolo di investimento in capitale, portandole a 294 miliardi di dollari, le hanno drasticamente ridotte a 111 miliardi nel corso del 2020. Le Capex stimate per il 2022 consentiranno di raggiungere circa 135 miliardi, con un incremento di quasi il 21,6% Y/Y, ma siamo ben lontani dai picchi del 2014.

Petrolio: prospettive 2022, cosa si attendono gli analisti

Gli analisti di Bank of America si attendono un aumento delle spese per perforazione e completamento dei progetti del 22% nel 2022, il che vorrebbe dire tornare a livelli che non si vedevano dal 2006.

Non è però scontato che questo possa compensare la carenza di capacità produttiva che ha iniziato ad emergere non appena la domanda ha ripreso vigore, spingendo i prezzi verso l’alto. Tutto il settore dello “shale oil” statunitense (petrolio di scisto, cioè quello prodotto da frammenti di rocce di scisto bituminoso, ottenuto attraverso il processo produttivo del “fracking”, fratturazione idraulica) è in profondo rosso.

Secondo dati forniti dalla U.S. Energy Information Administration, EIA, negli USA, nel luglio 2021 vi erano 5.957 “pozzi” “Drilled but Uncompleted Wells”, DUCs, cioè siti perforati ma non ancora completati. Erano ben 8.900 nel 2019, il picco massimo raggiunto. Tutto ciò implica che, a questi livelli, i produttori dovrebbero aumentare la perforazione a ritmi vertiginosi, per sostenere la produzione ante pandemia. La conseguenza economica sarebbe rappresentata da un nuovo incremento degli investimenti, spinti dall’aumento della domanda e dei prezzi, che porterebbe ad un incremento dell’offerta a un livello tale da invertire il medesimo Ciclo, riducendo prezzi, Capex e utili.

Petrolio: i problemi dei produttori di “Shale”

Ma, come se non bastasse, a rendere ulteriormente più complicata la situazione per i produttori di “shale” statunitensi, dobbiamo ricordare in quale ambiente ostile complessivamente essi si trovino. Consideriamo che, secondo logica economica, essi si dovrebbero preparare ad incrementare le spese per investimenti in nuovi “rig wells drilling”.

Tuttavia il capitale finanziario a disposizione per l’industria è costantemente in diminuzione. È sempre più difficile trovare finanziamenti bancari a Wall Street disposti a sostenere i fabbisogni finanziari del settore.

D’altronde l’orientamento molto duro che l’amministrazione Biden ha assunto già in campagna elettorale nei confronti dell’intera filiera petrolifera (obbedendo alla nuova “religione” mondiale del green e dell’ESG) sta mettendo in ginocchio un’industria che potrebbe approfittare del nuovo Ciclo dei prezzi e del capitale per risollevarsi dopo un estenuante periodo.

Ricordiamo che tra il 2014 e il 2016, l’intero settore ha dovuto di fatto fronteggiare una “guerra del petrolio” (al ribasso) che l’Arabia Saudita aveva incautamente ingaggiato con l’industria “shale” statunitense, con il fine di distruggere l’autonomia petrolifera americana e mantenere inalterato il suo primato. La fine della guerra ha lasciato un’industria USA in ginocchio ma viva e un’Arabia Saudita che, nel frattempo ha più che dimezzato le sue preziosissime riserve in dollari.

Nessun vincitore quindi e forse, politicamente, l’Arabia Saudita è quella che ne ha pagato il prezzo maggiore, sia in termini di fiducia da parte del suo principale alleato in virtù degli accordi del 1945, sia in termini di prestigio all’interno dei membri dello stesso OPEC.

Alessandro Magagnoli, Mauro Antonio Rotunno

(Continua)