FTAOnline

Apple, via libera all'iPhone con intelligenza artificiale cinese

di Giovanni Digiacomo pubblicato:
8 min

Il ChatGPT di Beijing si chiama Earnie Bot ed è un prodotto del Google cinese Baidu, finirà negli iPhone 16 della Repubblica Popolare ed è subito geopolitica. Ma per la casa di Cupertino non mancano i problemi concorrenza in patria. Ecco che succede

Apple, via libera all'iPhone con intelligenza artificiale cinese

La pattuglia dei magnifici sette di Wall Street continua a perdere cavalli. Non solo Tesla, ma anche Apple, come i più attenti osservatori del mercato americano segnalano da tempo e come la brutta seduta di giovedì scorso ha mostrato.

E se Tesla perde quota per questioni industriali e di competizione, per Apple emerge ancora di più il tema vero dei tecnologici nel 2024 (ma si potrebbe dire tranquillamente degli ultimi anni): la politica e la geopolitica che sempre più strettamente marcano i big del settore, anche in America.

Come succede anche con Nvidia.

Apple, l'iPhone indossa l'intelligenza artificiale cinese

La notizia di oggi è che Baidu, il Google cinese, avrebbe inserito il suo ErnieBot nelle tecnologie Apple della Repubblica Popolare, iPhone 16, Mac e iOS 18. Il nuovo catalogo di Cupertino, insomma, ma con ErnieBot invece di ChatGPT.

Già perché questo è ErnieBOT, l’avanguardia dell’intelligenza artificiale cinese sviluppata dal colosso Baidu in chiave anti-ChatGPT. Nell’ex Impero Celeste vince facile, perché ChatGPT è bandita dal governo almeno dallo scorso novembre.

Per gli Stati Uniti di Obama, di Trump e di Biden (e sicuramente anche per quelli che usciranno dalle prossime elezioni di novembre) è fumo negli occhi, è la muleta, il mantello rosso del torero.

Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale cinese è visto come una minaccia alla sicurezza nazionale per via del possibile spionaggio, dei pericoli per la cybersecurity del Paese e persino per il processo elettorale, senza considerare le applicazioni direttamente militari.

Ma questo è solo una faccia del problema ovviamente, perché il fatto che circa la metà dei massimi esperti mondiali di intelligenza artificiale sia cinese spaventa Washington proprio sul fronte della competizione nei pilastri del suo dominio mondiale che si basa non solo sulle armi, ma anche (e forse soprattutto) sul suo predominio tecnologico.

È un discorso delicato, soprattutto per l’Europa che è un po’ il vaso di coccio tra le due superpotenze (e per giunta sotto perenne minaccia geopolitica).

L’altro giorno Intel ha incassato 8,5 miliardi di dollari di sussidi del governo Usa nell’ambito di 20 miliardi di finanziamenti pubblici dell’amministrazione Biden per rifare sostanzialmente la filiera del chip negli Stati Uniti, riportando l’eccellenza della produzione di semiconduttori entro i confini o al massimo in Germania (dove altri soldi pubblici arriveranno).

Il finanziamento pubblico alle industrie strategiche è una questione di geopolitica, ma anche di capacità fiscale e debito pubblico, come dimostra il fatto che neanche troppo velatamente quando Biden lanciò il suo Chips Act, anche a Bruxelles in molti storsero il naso.

Così come a Washington non sono mai piaciute le fabbriche di Tesla in Cina o all’Italia non piacciono le delocalizzazioni nell’auto e in altri settori (da Stellantis a STM, il governo italiano è al braccio di ferro produttivo con molti grandi gruppi e su STM ha appena affiancato all’amministratore delegato Jean Marc Chery l’italiano Lorenzo Grandi per avere più voce in capitolo sugli investimenti e arginare una francesizzazione che anche in quel caso si nutre di investimenti pubblici alle fabbriche).

Ma restiamo su Apple. La novità dell’ErnieBot nelle tecnologie in Cina è giunta sui mercati da Cailian Press, una sorta di Bloomberg cinese, che cita a sua volta "Kechuangban Daily" che ha appreso che Baidu fornirà funzioni AI per iPhone 16, il sistema Mac e l’iOS 18 di Apple quest'anno da persone informate sul dossier.

Una catena di informazioni in lingua cinese rimbalzata sui media a dimostrazione del fatto che per fortuna esiste ancora una certa permeabilità osmotica dei blocchi di informazione globale, nonostante questa montante voglia di creare muri invalicabili anche nella narrativa geopolitica.

Al contempo però la stessa Cina sbarra il passo ai chip di Intel e AMD nei server e nei computer governativi, nel montare delle contraddizioni della chip war ormai in corso da anni.

Apple, il tech USA alle prese con le cause antitrust

Apple in realtà ha subito però l’ultimo scossone in patria. Giovedì scorso infatti il titolo ha segnato uno scivolone del 4,1%, che può sembrare poco, ma per il gigante guidato da Tim Cook significa qualcosa come 113 miliardi di dollari di capitalizzazione di Borsa. Da dove lo spintone? Dal Dipartimento di giustizia USA (DOJ) che ha aperto uno spinosissimo caso sulla concorrenza negli Stati Uniti. Un plotone di 15 Stati e il Distretto della Colombia hanno affiancato il Dipartimento di giustizia e sostengono che Apple sia monopolista grazie alla violazione delle norme sulla concorrenza dello Sherman Antitrust Act. In pratica sono troppo grossi e danneggiano il mercato.

Apple se la batte con Microsoft per la medaglia d’oro di società che vale di più in Borsa nel mondo: 2,66 trilioni di dollari di valore a Wall Street, che significa circa 2.460 miliardi di euro, ossia molto di più del Pil italiano (circa 2 miliardi di euro a prezzi correnti nel 2023) e quasi quanto il nostro debito pubblico (2.848 miliardi di euro).

Negli Stati Uniti Apple supera il 70% del mercato premium degli smartphone e il 65% del mercato totale dei telefonini (dati dello stesso Dipartimento di giustizia, ma tornano).

Questo dominio, secondo il DOJ, sarebbe il frutto di una violazione della legge:

“I consumatori non devono pagare prezzi più alti perché le società violano la legge.
Noi sosteniamo che Apple ha impiegato una strategia che si basa su una condotta esclusiva e anticoncorrenziale che danneggia sia i consumatori, che gli sviluppatori.
Per i consumatori, questo ha significato minore possibilità di scelta, prezzi e commissioni più alte, minore qualità degli smartphone, delle app, degli accessori e minore innovazione da Apple e dai concorrenti”.

Roba che in Europa sentiamo ogni 6 mesi, ma che in America è quasi una novità.

Fosse Huawei, tutto normale, ma accusare un pallone d'oro della tecnologia USA di pratiche monopolistiche sul suolo nazionale attua una pratica antitrust da elaborare con calma.

Pressioni politiche? Industriali? La decisione di ravvivare la ricchezza del mercato domestico che nella stessa Cina dà grandi risultati?
Di certo il titolo ha accusato il colpo e le conseguenze si vedranno nel tempo.

Quali sono le violazioni in particolare?
Restrizioni contrattuali e commissioni che limitano gli interventi degli sviluppatori terzi nelle piattaforme di Apple; restrizioni mirate ai punti di connessione tra il sistema operativo di Apple (iOS) e le app di terzi che penalizzano i fornitori non Apple.

Accusa pesanti, non tutte nuove per un lettore europeo, ma pesanti, anche nei toni, visto che lo stesso Dipartimento di giustizia sostiene che Apple per 15 anni ha chiesto ai concorrenti una commissione del 30% sul prezzo di ogni app scaricata dall’App Store. Una sorta di tassa teleguidata verso il monopolio controllato del proprio ecosistema chiuso.

C’è persino il caso di messaggi ingannevoli quando l’iPhone entra in contatto con un dispositivo non Apple tramite Apple Messages. Sotto inchiesta finisce insomma un po’ di tutto a Cupertino, dalle app a Siri a iMessage.

Una granata lanciata dal procuratore generale Merrick Garland, ampiamente accompagnato - come visto - da altri soggetti istituzionali. E ha ferito il titolo.

C’è anche chi dice che già da inizio anno circolavano le voci sulla costruzione di questa causa antitrust contro Apple. Approderà al Tribunale del distretto del New Jersey, ma siccome niente è ingenuo a Wall Street bisogna aggiungere che questo dossier diventa anche un modo per giustificare il calo di quasi il 15% del titolo Apple dai massimi di dicembre.

A ragionarci ancora un po', però, forse i tecnologici Usa hanno corso già tanto e qualcuno magari liquida un po' per prendere profitto... Tanto per ricordare che Wall Street sa essere insieme molto sofisticata e molto semplice.

Ma in realtà le pressioni antitrust sul mercato tecnologico Usa negli ultimi anni sono cresciute, dal 2019 almeno, secondo i più attenti.

Apple, i processi Antitrust e il caso di Google e Fortnite

Emblematico il processo a Google dell’anno scorso. Paradossalmente un ruolo fondamentale l’ha avuto il videogioco Fortnite della Epic Games. In pratica la casa dei videogiochi aveva deciso di incoraggiare l’acquisto di Fortnite sulla propria app, invece che tramite Apple e Google, ma queste avevano imposto il muro di ferro del 30% di commissioni.

Era il maggio 2020 e nasceva il caso antitrust che matura in questi anni.

Questo maggio nei tribunali USA Google potrebbe vederne delle belle su altri fronti, ma intanto, sul caso di Fortnite, Epic Games a dicembre ha vinto in tribunale il suo primo verdetto e siccome tutti gli Stati d’America si stavano coalizzando su casi simili da settembre alla fine Google si era arresa ai nastri di partenza delle cause e patteggiato un risarcimento di 700 milioni di dollari ai consumatori statunitensi e una nuova gestione del Play store, a partire da una maggiore possibilità di scaricare le app direttamente senza incorrere nei dazi della grande G.

Vittorie importanti, ma relative, visto che 700 milioni sono pari all’utile operativo di appena 21 giorni del Play store e che i consumatori risarciti incasseranno dalla causa circa 2 dollari a testa.

Le altre cause antitrust intanto maturano e anche Apple finisce nel mirino, proprio nei mesi in cui, in vista delle elezioni, i grandi investimenti pubblici nella tecnologia statunitense diventano anche un’arma di propaganda.

E intanto schiere di sconosciuti fornitori cinesi continuano a comprare i chip di Nvidia che gli sarebbero vietati dal bando Usa del 2022 e per il titolo più famoso di Wall Street (il cui CEO e fondatore Jen-Hsun Huang è per ironia della sorte di origine taiwanese) è quasi business as usual. E' anche la riconferma che l’eccellenza tecnologica è ancora statunitense nonostante gli sforzi di Huawei & Co.

Così anche l’ultima novità su Apple finisce nel gigantesco polverone della geopolitica anticinese degli Stati Uniti e, fra nazionalismi di propaganda e fatturato vero, mette un altro tassello nella complicata composizione dei rapporti tecnologici tra i due colossi.

L’Europa in compenso ha appena varato la prima legge mondiale di rango per la regolamentazione dell’intelligenza artificiale, ma rimane in panchina, incapace ancora di competere sull’innovazione tecnologica con i grandi.

Più capace, come sempre, di guardarsi l’ombelico con beghe di cortile come quelle tra Italia e Francia su STM, che di promuovere davvero un’industria continentale competitiva sulla tecnologia.