Usa, i solidi dati del lavoro raccontano un'altra America
pubblicato:La dinamica lavorativa Usa sembra completamente diversa dalla narrazione di Trump, quei dati però portano dove vuole lui, verso uno o più tagli dei tassi da parte della Fed

Dati ancora molto positivi dall’occupazione Usa. Il dato macroeconomico più atteso della settimana, quello delle buste paga del settore non agricolo negli Stati Uniti ha battuto le stime degli analisti e confermato la salute dell’economia a stelle e strisce: se non si tratta più di eccezionalismo americano, poco ci manca e sicuramente chi aveva fatto leva ieri sulla cattiva indicazione della variazione dell’occupazione non agricola ADP (-33 mila posti vs +99 mila attesi), deve oggi riconsiderare la prospettiva.
Anche nell’ottica della valutazione fondamentale: quella sulle prossime mosse della Fed.
USA, con dati del lavoro così solidi...
Oggi il Bureau of Labor Statistics ha affermato che a giugno le buste paga del settore non agricolo negli Stati Uniti – i famosi nonfarm payroll – sono cresciute di ben 147 mila unità, decisamente di più delle 111 mila attese dalla media degli analisti e anche di più di quanto non fossero i nuovi posti a maggio, 144 mila unità, un dato peraltro rivisto al rialzo dalla stima precedente (139 mila unità). Con un’economia tanto sana e l’inflazione sempre più sotto controllo, gli spazi di manovra per la Fed di Jerome Powell si comprimono e gli alibi contro ulteriori tagli dei tassi si riducono.
La salute del mercato del lavoro Usa – e va ricordato che la Fed ha insieme all’obiettivo del controllo dei prezzi anche quello della massima occupazione – è solida.
Il tasso di disoccupazione del 4,1% degli States è fisiologico, il numero dei disoccupati resta lì, sui 7 milioni di americani, con le solite discrepanze tra le categorie dell’agenzia Usa: il 6,8% la disoccupazione dei neri in crescita, il 3,6% quella delle donne e dei bianchi in calo, al 3,5% gli asiatici e al 4,8% gli ispanici invariati.
Il tasso di partecipazione al lavoro Usa è del 62,3% della forza lavoro a giugno, con 4,5 milioni di part-time per ragioni economiche.
Un'altra America: il mercato chiede insegnanti e assistenti sociali, non operai
Lo spaccato di questi 147 mila nuovi impieghi è importante, perché in teoria potrebbe anche guidare le politiche del governo alle prese con il Bill di Trump. La maggior parte dei nuovi posti di lavoro infatti si è avuto paradossalmente nello Stato e nel settore sanitario, con 73 mila nuovi dipendenti a giugno da parte del governo, in gran parte nell’insegnamento, ben 47 mila nuovi posti a livello federale e oltre 23 mila a livello locale.
Altro nocciolo duro della nuova occupazione è nel settore sanitario con ben 39 mila nuovi posti a giugno nell’healthcare, di cui 16 mila negli ospedali e 14 mila nell’infermieristica e nelle case di cura. Crescono anche di 19 mila gli assistenti sociali, in particolare per i servizi all’individuo e alla famiglia.
E l’industria? La finanza? La manifattura? In epoca di dazi la manifattura perde altri 7 mila posti di lavoro soprattutto nell’ambito di beni durevoli (auto, frigo…), la manifattura di computer e prodotti elettronici perde 4.900 posti di lavoro.
Il settore minerario e della lavorazione primaria perde 2000 posti di lavoro.
Vanno bene invece le costruzioni, nonostante i tassi d’interesse ancora elevati, ben 15 mila posti di lavoro nuovi a giugno.
A comporre il saldo delle costruzioni contribuiscono in maniera decisa i lavoratori specializzati (specialty trade contractors) che segnano un balzo di ben 18.400 unità nel mese. Calano di 6.600 unità i commercianti all’ingrosso e crescono di 2.400 unità quelli al dettaglio.
Tutto un mondo di servizi insomma e consumi che sembra raccontare una domanda e un’America davvero molto diversa dalla Rust Belt di JD Vance e dalla Pastorale Americana di Peter Thiele: una manifattura più piccola, meno operai e più insegnanti, più servizi alla persona e alla famiglia e meno addetti alla produzione di elettronica. Una sintesi appare molto difficile.
Ma nonostante tutto i dati portano esattamente nella direzione che vuole Trump, ossia nella crescita delle pressioni su Jerome Powell per un taglio dei tassi d’interesse.
Il “too late”, il “dumb” alla guida della banca centrale che ha già detto di volere aspettare ha però sempre meno indicazioni su un rallentamento del lavoro o su un balzo dei prezzi per giustificare gli attuali tassi elevati.
La stessa agenzia BEA che oggi ha diffuso i dati sull’occupazione ha certificato qualche giorno fa un’inflazione PCE, la preferita dalla Fed, al 2,3% in leggero rialzo per il dato complessivo e al 2,7% per la sottostante (prezzi senza energia e alimentari non lavorati), non proprio il 2% del target della Fed, ma meno della mediana delle attese dei loro esperti posta quest’anno al 3% per il totale e al 3,1% per il dato “core”.
Non si può insomma ancora dire che i prezzi con i dazi siano esplosi, anzi la revisione al ribasso delle stime sui prezzi dovrebbe portare con se la possibilità di tagli del costo del denaro.
Anche il dato della disoccupazione al 4,1% è ben sotto le stime macroeconomiche della banca centrale poste al 4,5% lo scorso 18 giugno. Naturale pensare che se tutto migliora, anche le previsioni di tassi al 3,9% a fine anno, quindi di uno o due tagli entro la fine del 2025 necessitino di una revisione.
In queste ore però il FedWatch tool del CME, che analizza le probabilità sui tagli futuri della Fed pone al 43,3% (la percentuale più alta tra le altre) un livello dei tassi del 3,75-4,00%: significherebbe con ogni probabilità quel taglio a settembre che in molti credono. Ma se continua così forse ce ne vorranno di più.