Cina, l’Occidente alle prese con le promesse sbiadite di Xi Jinping

di Giovanni Digiacomo pubblicato:
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Strategica e imperscrutabile, la Repubblica Popolare alterna segnali di ripresa e di crisi. Il ruolo globale indiscusso la espone alle incertezze di questa fase. Fra i problemi, il debito crescente, la disoccupazione giovanile, il potere d’acquisto in affanno, il fallimento di vecchie ricette come il mattone di Evergrande. Eppur si muove...

Cina, l’Occidente alle prese con le promesse sbiadite di Xi Jinping

La Cina ha l’eterno ruolo dell’elefante nella stanza, tutti ne parlano e tutti ne tacciano, periodicamente. La si teme, la si ammira, la si ignora.

La svolta personalistica di Xi Jinping del 2018, quando fu eliminato il limite di mandato del presidente e fu inaugurata una nuova stagione di (più) stretto controllo governativo sull’economia generò quella reazione statunitense nota come Trade War, ossia la guerra commerciale tuttora in atto tra Washington e Beijing.

Cina contro USA, per l'Europa una posizione scomoda

Ovviamente l’Europa restò di lato, consapevole dell’alto voltaggio che scorreva su quei fili. L’Europa dipende infatti dalla Cina, è la prima economia globale da cui importa – qualcosa come 626 miliardi di euro nel 2022 - e il terzo partner commerciale all’export – qualcosa come 230,3 miliardi di euro l’anno scorso.

Proprio sul lato debole delle nostre esportazioni alla Cina, tra l’altro, è utile notare che da 132 miliardi di euro nel 2012, siamo passati a 230,3 miliardi, quindi vendiamo sempre di più.

Certo la curva delle importazioni è molto più ripida e abbiamo quasi quadruplicato il deficit commerciale (siamo a quasi 400 mld contro i 100 di 10 anni fa), ma in un trend di costante crescita degli scambi, alla faccia del reshoring e della fine della globalizzazione.

Oltretutto un’importante mossa strategica dei governi di Xi è stata quella di riavviare l’economia cinese puntando sui megatrend, al punto di rendere – come noto – la Cina leader globale delle filiere della transizione digitale e di quella ecologica, con posizioni di predominio totale in manifatture fondamentali come quelle dei pannelli solari o delle batterie a litio.

Emblematico è stato l’altro giorno il rilancio (ma forse è più un debutto…) di Stellantis sull’auto elettrica con l’esclusiva della distribuzione globale delle auto di Leapmotor, una casa cinese specializzata nelle auto elettriche a basso costo con sede a Hangzhou, a 165 chilometri da Shanghai e a 600 da Taiwan. Un’intesa da 1,5 miliardi di euro che la dice lunga.

Nella chip war, che della trade war è un sottoinsieme fondamentale, l'Europa resta indietro per via di risorse pubbliche e di investimento minori della concorrenza americana e così, stretta tra due fuochi, la tecnologia europea resta al bivio spesso costretta a prendere decisioni difficili, loss-loss, come nei casi di ASML e di Pirelli.

Cina, i numeri dell’economia

Ma come noto la Cina è strategica per l’Occidente, l’Europa e l’Italia anche per i consumi interni, vero cruccio di Xi, in quanto il rilancio della domanda domestica doveva essere una delle linee guida dello sviluppo sostenibile cinese e invece è rimasta al palo.

Quanto pesa il consumo nazionale sul Pil? Questa semplice percentuale è basilare per valutare ogni economia: negli Stati Uniti siamo al 67,8%, in Italia siamo scesi al 59,1%, in Cina siamo al 38% circa, con uno squilibrio con il 42% di investimenti e immobiliare che da molti è indicato come uno dei problemi economici strutturali del Paese.

Detto questo in molti lo scorso 18 ottobre hanno festeggiato. Cosa era successo? Il Pil cinese aveva mostrato nel terzo trimestre una solida crescita del 4,9% e aveva battuto le attese poste al 4,4%.

Festa carica di incertezze visto che si veniva da un balzo del 6,3% del Pil nel secondo trimestre, ma comunque c’era un segnale di tenuta in un’economia fortemente provata prima dalle restrizioni del Covid e poi da una gigantesca crisi immobiliare – con il caso Evergrande – della quale ancora non si vede la fine.

In soldoni nei primi nove mesi dell’anno il Pil cinese è stato di 91.302.700.000.000 yuan, ossia circa 11.715 miliardi di euro, che annualizzato farebbe 15.621 miliardi di euro (uno yuan vale quanto una corona danese oggi, circa 0,13 euro).

Fra le varie componenti di questo Pil solo due crescono a doppia cifra nel terzo trimestre: alloggi e ristorazione (+12,7%, ma parliamo dell’1,7% del Pil complessivo) e l’information technology in senso lato (+10,3%, ma appena il 3,7% del Pil).

L’unica componente in negativo, ca va sans dire, è stata l’immobiliare con un -2,7% nel terzo trimestre e in questo caso abbiamo il 5,35% del Pil. Anche se poi per capire il peso del mattone al Real Estate bisogna aggiungere il settore costruzioni che pesa il 7,24% del Pil ed è cresciuto del 6,6% nel trimestre.

Cina, come vanno le imprese e cosa si aspettano

Ma per capire ancora meglio come funzionano le cose nell’ex Impero Celeste forse si può guardare anche ai recentissimi dati statistici sui direttori degli acquisti, i famigerati e prospettivi PMI.

Il PMI manifatturiero di ottobre (quello privato di Caixin/S&P Global) ha deluso: 49,5 punti, di nuovo sotto i 50 che separano l’espansione dalla recessione, contro attese per 50,8 punti e un dato precedente di 50,6. Il report comincia così: “Gli ultimi dati PMI segnalano un rinnovato deterioramento delle condizioni del settore manifatturiero in Cina a ottobre, ancorché un deterioramento marginale”.

Tra le righe si percepisce un quadro di incertezza tra i buyer cinesi, c’è stato un modesto calo della produzione dovuto anche a mutamenti della domanda, soprattutto estera. C'è stato un maggiore ricorso alle scorte di magazzino, in parte per ridurre i costi.

Sul fronte opposto invece vendite inferiori alle attese e alcuni rinvii nelle consegne dei beni hanno fatto crescere le scorte e in maniera importante: si è visto infatti il più grande incremento delle scorte post-produzione (cioè di prodotti finiti) dal settembre 2015.

Alleggerimenti dell’organico (ossia licenziamenti) in linea con una spinta alla riduzione dei costi. L’ottimismo sui prossimi 12 mesi è sceso ai livelli più bassi dal settembre 2022. Ciononostante i nuovi ordini sono cresciuti per il terzo mese di seguito, quindi le criticità sono piuttosto sul fronte dei costi che all’input e all’output che continuano a crescere. Da notare che mentre gli ordini crescono la domanda estera flette per il quarto mese di seguito, sicuramente anche per via del quadro geopolitico incerto.

Il PMI servizi di ottobre (sempre Caixin) è ancora in espansione: 50,4 punti rispetto ai 50,1 del mese precedente, ma anche in questo caso il mercato si aspettava di più, ossia 50,9 punti. La crescita nei servizi c’è, ma è sottotono tanto che i nuovi ordini sono cresciuti sì, ma al ritmo più lento degli ultimi 10 mesi. Al contrario della manifattura qualche segnale positivo viene dalla domanda estera. Incertezza comunque, tanto che i livelli occupazionali sono invariati. Le tensioni sui prezzi all’input sembrano essersi allentate e comunque i servizi sembrano riuscire a trasferire i prezzi sui clienti.

L’inflazione comunque, a differenza che per gran parte del mondo occidentale, per la Cina non è un problema, anzi si è avvertito di recente un problema di deflazione piuttosto: a settembre l’inflazione è stata pari allo 0%, dopo un picco del 2,8% nel settembre 2022 e un -0,3% lo scorso luglio.

Sul fronte dei tassi di interesse infatti la Cina sta riducendo il costo del denaro ed è scesa al 3,45% di Loan Prime Rate (1 anno), appena confermato a ottobre, mentre il Loan Prime Rate a 5 anni è al 4,20% La direttrice è data dal Medium-Term Lending Facility rate (MLF) che è sceso al 2,50%. L’LPM a 1 anno è il tasso principale al quale la banca centrale presta alle banche commerciali, mentre l’LPM a 5 anni fa da riferimento per i tassi sui mutui e l’MLF fa da guida ai tassi primari.

La disoccupazione fornisce segnali molto importanti. Se infatti a settembre il tasso generale di disoccupazione in Cina è sceso dal 5,2 al 5,0%, quello che preoccupa è la disoccupazione giovanile. La scorsa estate infatti si è raggiunto il record del 21,3% di disoccupazione giovanile, un dato tanto allarmante per quell’economia da spingere la Repubblica Popolare a interromperne la diffusione. Un silenziatore che ha fatto però scalpore nella cronaca economica globale.

Il Council of Foreign Relations, il noto think thank statunitense, ha ipotizzato che dopo anni di incoraggiamenti governativi allo sviluppo della formazione universitaria, l’economia cinese dei servizi non abbia retto il confronto e anzi le risorse indirizzate verso il settore immobiliare abbiano sottratto una possibilità importante ai neolaureati cinesi. Questo sarebbe testimoniato dall’ampio gap apertosi tra il numero dei neolaureati e il numero di nuovi posti di lavoro nei servizi nel 2022.

Business Insider ha visto nell’esplosione della disoccupazione giovanile un rischio per la stabilità economica non solo cinese, ma anche statunitense.

Nonostante la guerra commerciale in corso tra Washington e Beijing (che spesso lascia all’Europa il ruolo sgradevole di parafulmine), va infatti ricordato che la Cina ha pur sempre 821,8 miliardi di dollari di debito pubblico americano in portafoglio, il livello minimo dal 2009, ma comunque un livello importante. Siamo lontani dagli 1,1 trilioni del Giappone che resta il maggior creditore USA, ma comunque è un’esposizione molto, molto rilevante. E assai più scomoda.

D’altronde più che al debito altrui, la Cina di questi tempi pensa al proprio. Dal 1995 a oggi il debito cinese è cresciuto con una certa costanza e nel tempo ha accelerato pericolosamente l’ascesa. Nel ’95 era al 21,6% del Pil oggi è al 77,1%. E parliamo di debito pubblico perché poi il debito complessivo cinese (pubblico+privato) è salito nel primo trimestre di quest’anno al 279,7% del Pil mettendo in allarme gli osservatori dell’economia asiatica.

L’Ispi ci ha visto una doppia crisi di politica domestica e internazionale.

Sul fronte interno la politica governativa si scontra con lo scoppio della bolla immobiliare che ha colpito le casse delle autorità locali al punto che ci sarebbero diffusi rischi di default e in molti casi persino l’interruzione di servizi pubblici essenziali.

Sul fronte estero la geopolitica dei finanziamenti generosi ai paesi emergenti da inserire nella lista degli amici si sarebbe rivelata rischiosa per via del peggioramento delle finanze pubbliche di molte nazioni creditrici: già in Sri Lanka questo avrebbe permesso di ottenere a titolo di risarcimento il porto di Hanbantota, ma ora ci sarebbero anche pressioni sui rimborsi di Pakistan, Zambia e Suriname.

Non è proprio una novità visto l’ingresso (in minoranza) di Cosco nel capitale del porto di Amburgo e la conquista in Grecia di due terzi del capitale del porto del Pireo, ma a volte le cose vanno anche male come con il default dello Zambia sul debito contratto con la Cina che è finito persino sul tavolo del G20. In poche parole una politica finanziaria di potenza che ha portato molti vantaggi, ma che, colpita dalla crisi del Covid rischia in caso di un’ondata di default di trasformarsi in una serie micidiale di perdite.

Ma andiamo al deficit, ossia al nuovo debito pubblico contratto ogni anno. È di pochi giorni fa la notizia di un nuovo giro di spese pubbliche in Cina che dovrebbe portare dal previsto 3% al 3,8% il deficit di quest’anno 2023.

In buona sostanza si tratterebbe di un nuovo trilione di yuan di debito pubblico governativo. L’obiettivo è quello di nuovi stimoli capaci di portare l’economia a raggiungere l’obiettivo del 5% di crescita del Pil quest’anno, un obiettivo al quale ormai credono in pochi, ma che potrebbe ancora essere a portata di mano dopo gli ultimi dati.

Le risorse prese a debito dai mercati sarebbero messe a disposizione di quello che la comunità internazionale chiede da tempo, ossia l’investimento in nuovi settori di sviluppo lontani dalle infrastrutture e dal settore immobiliare che hanno forse incoraggiato la crescita del passato, ma che oggi sembrano più un problema che una soluzione.

E qui si giunge al trade-off più importante, uno scarto persino più difficile di quello tra la politica di potenza da nazione creditrice (interessata) delle economie emergenti e nazione esposta a crediti a rischio.

Il problema secondo molti osservatori occidentali è infatti proprio nell’anima statalista del capitalismo cinese che rappresenta una delle maggiori cifre dell’epoca di Xi Jinping. Per rinnovare l’economia servirebbe dare più spazio alle imprese private, in modo da incoraggiare il potere di acquisto delle famiglie e il loro inurbamento.

In realtà secondo diversi media locali Zhu Zhomgming, viceministro delle finanze, punterebbe con quelle risorse alla ricostruzione di diverse aree colpite da disastri naturali, soprattutto da alluvioni. Xinhua ha parlato di “rafforzamento degli investimenti, espansione della domanda domestica e rafforzamento delle aree critiche”.

E viene naturale pensare a Evergrande, il colosso immobiliare di dimensioni macroeconomiche pochi giorni fa ha proposto un nuovo piano di ristrutturazione dei debiti esteri in cui propone la conversione delle esposizioni in un buon 30% del proprio capitale.

Attualmente il debito estero di Evergrande è di circa 19 miliardi di dollari che rischiano un haircut da Troika, basti pensare che sul mercato un dollaro di debito del colosso immobiliare tratta a 2,25 centesimi secondo i dati di LSEG. Il fondatore del gruppo Huy Ka Yan è finito sotto inchiesta, ma come noto Evergrande è diventata in Cina un caso sociale e politico.

Avendo lasciato più di un milione di famiglie in attesa della propria casa non poteva essere che così. Il disastro del secondo più grande sviluppatore immobiliare cinese seppellito da 340 miliardi di debiti dopo che ancora nel 2021 in Cina erano ben 12 milioni i proprietari di case costruite dal gruppo, non poteva che essere grandioso.

Cina, le contraddizioni dei risultati di Xi Jinping

Il problema è che la ricetta per la nuova via di sviluppo della Cina architettata da Xi Jinping passava anche dal mattone e negli ultimi anni per una perversa eterogenesi dei fini tutto con la Cina è andato al contrario.

Doveva riequilibrare le sue posizioni commerciali e invece ha esportato sempre di più, doveva aumentare il potere d’acquisto delle famiglie e non è andata così, doveva stabilire dei protettorati economici nelle aree ricche di materie prime e rischia il default di molti debiti emergenti, doveva essere una nazione giovane che guarda al futuro e invece ha più di un giovane su cinque disoccupato e costi sociali crescenti per via dell’invecchiamento della popolazione.

Le è rimasto il lato sporco della transizione energetica, la raffinazione delle terre rare e la lavorazione delle commodity del futuro.

Non è affatto poco, ma senza dubbio non è abbastanza per smettere di essere semplicemente la “fabbrica del mondo”.