Dazi, è ancora braccio di ferro, mentre le scadenze stringono
pubblicato:Mercoledì potrebbero scattare nuovi dazi sull'Europa, gli Stati Uniti aumentano la pressione sui partner, ecco le prossime scadenze e i numeri in gioco

Le date si fanno sempre più stringenti per un accordo sui dazi tra Washington e Bruxelles. I segnali contradditori si moltiplicano. Attualmente gli Stati Uniti hanno imposto ‘dazi reciproci’ su tutte le merci importate dall’Europa del 10% e sono già un grosso danno, perché uniti al rincaro del 17% dell’euro sul dollaro dai livelli di inizio anno, sono una stangata per molte industrie.
Un accordo di principio su dazi universali reciproci nell’intorno del 10% è l’obiettivo dichiarato dell’Unione Europea in questo difficile giro di trattative con l’Amministrazione Trump, ma già così gli impatti non sarebbero leggeri.
Il presidente di Confindustria Emanuele Orsini pochi giorni fa ha ricordato che anche con quel 10% e la svalutazione del dollaro, l’Italia rischia la perdita di esportazioni per 20 miliardi di euro e la distruzione di 118 mila posti entro il 2026. Questo il livello della partita.
Già oggi ci sono ‘tariffe’ americane ancora più pesanti: del 50% su acciaio e alluminio e del 25% sulle auto sulle quali è assolutamente necessario trattare. Sostanzialmente è su questo nocciolo duro che le trattative del commissario europeo al Commercio Maros Sefcovic premono.
Un giro di date è essenziale per capire meglio.
I negoziati europei in corso hanno una scadenza a orologeria: se il 9 luglio non viene raggiunta un’intesa, scattano per l’Europa dazi universali del 50%. L’esito delle trattative è incerto e imprevedibile come spesso accade con l’amministrazione Trump.
Dazi Usa, le date e i miliardi in gioco
La scorsa settimana dopo i confronti più duri è emersa anche la possibilità di dazi del 17% sulle importazioni di prodotti alimentari europei negli Stati Uniti. Una novità, che ha allarmato soprattutto l’Italia, ma non solo.
Giustamente il ministro della Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida si è rifiutato di commentare delle mere ipotesi, ma chiaramente il settore, particolarmente importante in Italia, si è allarmato.
Stamane Vincenzo Divella spiegava al Corriere della Sera che l’Italia esporta 327 mila tonnellate di pasta l’anno negli Stati Uniti con un fatturato di 700 milioni di euro. Con i dazi e la svalutazione sono dolori per i prodotti più pregiati, come olio e vino, ma per altri, come la pasta forse si può gestire. Certo la stabilità anche prospettiva sembra un miraggio. Noi proviamo a fare due calcoli: il container tipo ha una capienza di circa 28 tonnellate, significa che soltanto di pasta spediamo poco meno di 11.700 container l’anno negli Stati Uniti? Da capogiro.
L’Osservatorio economico della Farnesina permette di estrarre delle schede per Paese e ci dice che con l’11,9% delle esportazioni italiane negli Stati Uniti, i prodotti alimentari, le bevande e il tabacco hanno fatturato 7,73 miliardi di euro l’anno scorso negli States.
Sono stati ancora più importanti macchinari e apparecchi (€ 12,82 mld, 19,8% del totale), farmaceutici e chimica (€ 10 mld, 15,5%) e mezzi di trasporto (€ 7,97 mld, 12,3%).
Ma in questi mesi abbiamo imparato a capire che poi in termini di filiera ogni dazio si inserisce in un potenziale campo minato. L’anno scorso l’Italia ha esportato 64,76 miliardi di euro di beni negli Stati Uniti e ne ha importati per 25,89 miliardi, intere industrie dipendono da questo interscambio, di qua e di là dall’Oceano.
Le trattative commerciali sono però prerogativa di Bruxelles e per questo Sefcovic viene pedinato dai media.
A livello europeo - i numeri rimbalzano da settimane – l’UE esporta 531,6 miliardi di euro di beni negli Stati Uniti e ne importa per 333,4 miliardi.
Abbiamo quindi un surplus della bilancia dei beni di poco meno di 200 miliardi (198,2 mld) su cui Trump vede rosso.
Ma se si prendono i servizi, ne importiamo per 427 miliardi e ne esportiamo per 319 miliardi, quindi con gli Usa abbiamo sui servizi un deficit di 108 miliardi che dimezza la bilancia complessiva.
Non è ancora chiaro però quanto Washington sia disposta a ragionare su questi binari. Le barriere commerciali ‘non doganali’, a partire dai vincoli sui servizi digitali e i big tecnologici sono senza dubbio una componente fondamentale dalle trattative tra Stati Uniti ed Europa, ma è difficile valutarne il peso specifico in questa fase.
Dazi Usa, le scadenze
Oggi alle 12 americane, 18 europee, partiranno le “letterine” della Casa Bianca ai partner con i quali non si è raggiunta un’intesa, una sorta di ‘out-out’ che potrebbe porre diverse capitali nell’angolo di una scelta tra una proposta unilaterale e le tariffe più elevate dei giorni più caldi di aprile, di quel “Liberation Day” che fu un incubo per i mercati azionari. Per chi non accetta i dazi più elevati scatteranno il 1° agosto 2025.
Le ‘letterine’ dovrebbero arrivare ai più riottosi, soprattutto ai “BRICS”, cioè Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica (anche se con la Cina c’è un’intesa in essere mai dettagliata alla comunità internazionale); ma non è chiaro se ci possa essere anche l’Europa, che pure da tempo negozia strenuamente.
Prima di arrivare a quelle date, c’è appunto quella chiave di mercoledì 9 luglio, quando in mancanza di un’intesa, l’Europa potrebbe subire un rincaro generale dei dazi al 50% Questa tariffa è già presente su acciaio e alluminio appunto.
Ad aprile l’Europa ha messo in pausa per 90 giorni, ossia fino al 14 luglio 2025 (lunedì prossimo) una serie di contromisure su beni statunitensi di importazione per 21 miliardi di dollari. Un’altra scadenza che incombe in Europa insomma.
Così, mentre il segretario del Tesoro Usa Scott Bessent si attende una serie di accordi a ridosso della scadenza e si approfondiscono i negoziati con partner come la Corea del Sud o il Giappone (che si trovano nella stessa situazione dell’Europa, ma ha in pancia 1,13 trilioni di dollari di debito pubblico USA, più di chiunque altro al mondo), i mercati oscillano tra nervosismo, sfiducia e indifferenza.
E’ chiaro a tutti che il nuovo Big Beautifull Bill di Trump dovrà essere alimentato anche con le risorse proveniente dai dazi (si stimano 20 miliardi di dollari al mese di introiti, ma necessariamente temporanei nei primi mesi), ma non è chiaro se poi la Casa Bianca abbia fatto bene i conti.
Il colosso dei container Maersk ha denunciato pochi giorni fa che la media dei dazi pagati sui container importanti negli Stati Uniti è attualmente al 21%: è un livello molto elevato, ma paradossalmente è meno della metà del 54% registrato tra il 9 e l’11 aprile. Sicuramente però sono tutte cose che all’economia non fanno bene.