Google si tiene Chrome e festeggia tutto il Nasdaq
pubblicato:L'Antitrust USA risolve con indulgenza i timori sulla concorrenza che potevano costringere allo spezzatino. Restano i TAC da oltre $ 20 mld - così si dice - pagati ogni anno ad Apple (che festeggia...)

Quando poi il Nasdaq ha guadagnato più dell’1% in molti l’hanno attribuito a questo, al sospiro di sollievo di Google cioè, che non dovrà più vendere il suo motore di ricerca Chrome come si temeva ormai da anni e sembrava anzi a molti sempre più probabile. La notizia è giunta dal Dipartimento di Giustizia a stelle strisce il 2 settembre, in particolare, ovviamente dalla divisione Antitrust.
Già perché la questione era tutta lì: monopolio o non monopolio? La stessa Corte di Washington guidata dal giudice Amit P. Anitha aveva trovato lo scorso novembre [si trova sul web facilmente la pronuncia, è il caso United States v. GOOGLE LLC (1:20-cv-03010)] Google colpevole di aver violato la Sezione 2 dello Sherman Act (la famosa legge Antitrust Usa) “mantenendo monopoli nei servizi di ricerca generale e nei mercati di pubblicità testuale nei servizi di ricerca generale”.
Google, la pronuncia Antitrust di novembre minacciava lo spezzatino
La ricetta per la cura di questa violazione rischiava di essere un salasso per il motore di ricerca più famoso del mondo, perché ipotizzava uno scorporo di Chrome, il noto browser di Google o in alternativa la cessione di Android (il sistema operativo più diffuso nei cellulari di tutto il mondo formalmente open source, ma in pratica di Google), a un soggetto approvato dal DOJ. Google doveva inoltre bloccare i sistemi con i quali qualunque suo asset o asset gestito dalla società privilegiava i servizi di ricerca di Google, la pubblicità testuale nella ricerca o i prodotti AI della casa (questo era il nodo delle questioni di concorrenza).
Il nodo era proprio la concorrenza e segnatamente con imprese americane come Apple che non hanno avuto - sembra – un “level playing field”, cioè un contesto realmente competitivo che per esempio consentisse ai suoi concorrenti di accedere veramente al suo Indice di ricerca (Search Index, ossia tutti i database che conservano e organizzano le informazioni sui siti web e i loro contenuti che sono setacciati e selezionati da Google in risposta alle ricerche sul web degli utenti). Google dovrebbe anche fornire tutti contenuti e strumenti propri impiegati nel Search Index e fare entrambe le cose con una latenza e affidabilità equivalenti funzionalmente a quelle mostrate con i propri strumenti.
Per gli Editori, i siti web e i creatori di contenuti era proposta anche un’opzione opt-out maneggevole per cancellarsi dalle ricerche, comprese quelle impiegate per l’addestramento dei modelli di intelligenza artificiale e affini.
Google doveva inoltre fornire gratuitamente i dati degli utenti, gli User-side Data, compresi quelli sul software dei dispositivi e derivanti da risposte a quesiti commerciali, di profilazione o locali (compresi i dati collegati allo sviluppo di modelli AI). Altro ancora era richiesto in termini di trasparenza sulla raccolta di dati a scopi pubblicitari e di altra natura. Per esempio si chiedeva un’API sui contenuti distribuiti (Syndacated Content), ossia quelli generati, pubblicati e diffusi per esempio da editori noti, come le testate giornalistiche (Reuters per esempio), che vengono redistribuiti su vari siti, per facilitarne la distribuzione con un’efficienza paragonabile a quella di Google stessa e con essa licenze di distribuzione a costo marginale che non chiedano per le pubblicità su questi contenuti distribuiti (Syndacated ads) più del 25% delle pubblicità testuali nei servizi di ricerca che forniscono per ricerche web negli Stati Uniti.
Google, cosa è rimasto con la pronuncia del Dipartimento di Giustizia di ieri?
Tra i rimedi proposti o accettati da Google diversi riguardano proprio il divieto di accordi esclusivi (nuovi o pre-esistenti) sulla distribuzione di Google Search, Chrome, Google Assistant e Gemini (quindi dal motore di ricerca, al browser, all’assistente, al modello di AI).
Il Dipartimento di Giustizia ha inoltre imposto che Google renda disponibili alcuni dati sul search index e l’interazione-utente ai concorrenti attuali o potenziali ed è stato sancito che Google offra servizi di distribuzione di pubblicità testuale che consentano la concorrenza (search text ads syndication services).
Il DOJ americano rivendica anche di aver prevenuto il rischio che i prodotti di intelligenza artificiale generativa di Google riproponessero i monopoli sulla ricerca web.
Più in particolare Google non potrà più:
- Condizionare la licenza di una qualunque applicazione di Google alla distribuzione, la pre-installazione (pre-loading) o la collocazione delle app Google Search, Chrome, Google Assistant o Gemini su un dispositivo.
- Condizionare l’ottenimento di quote di ricavi per il collocamento di qualunque applicazione Google al collocamento di una qualunque applicazione Google.
- Condizionare l’ottenimento di quote di ricavi al mantenimento delle app Google Search, Chrome, Google Assistant o Gemini su un dispositivo, un browser o punto di accesso alla ricerca (Search Access Point, il punto in cui si inserisce una ricerca web) per più di un anno.
- Proibire a qualunque partner la simultanea distribuzione di altri motori di ricerca (GSE), browser o prodotti di AI generativa.
Sono provvedimenti che avranno naturalmente delle conseguenze, soltanto negli Stati Uniti Google copre circa il 90% delle ricerche sul web, anche sé – come noto- l’AI sta strutturalmente cambiando i parametri delle ricerche sul web abilitando a nuovi servizi la concorrenza, per esempio, dei motori di ricerca conversazionali come Perplexity, che indicizza e struttura i propri risultati partendo da interrogazioni in linguaggio naturale cui seguono risultati ugualmente articolati (con i relativi riferimenti web). Un sistema totalmente diverso da quello di Google e dei tradizionali search engine che richiedono delle parole chiave o pochi altri parametri e forniscono soltanto un elenco di siti (la SERP Snippet) gerarchizzati e articolati generalmente in tre componenti (URL, Title Tag e Meta Description), distinguendo questi link organici dai “search text ad”, che sono i link pubblicitari (a pagamento).
Google, il nuovo accordo consente pagamenti miliardari ad Apple
Al tempo stesso la lettura generale delle cronache è stata di una vittoria di Google sui rischi maggiori corsi con le precedenti accennate pronunce. Per esempio rimane in piedi la possibilità di Google di pagare circa 20 miliardi di dollari l’anno Apple per accogliere il proprio motore di ricerca (spesso in posizione privilegiata) nel suo browser Safari, appena il 5% del giro d’affari di Apple, ma pari – secondo stime di una ricerca recente di Morgan Stanley citata dal Wall Street Journal – al 15% di tutti gli utili per azione di Apple nel 2025 se su scala globale e al 10% degli eps se il divieto si fosse limitato agli USA. Flussi salvi e quindi anche Apple tira un sospiro di sollievo. Si tratta dei Traffic Acquisition Cost (TAC) di Google, non scorporati per singolo “fornitore”, ma stimati complessivamente con una certa precisione ben oltre i 50 miliardi di dollari nel 2024 (sono stati per tutta la holding Alphabet, compresa quindi anche YouTube, 14,7 miliardi di dollari nel secondo trimestre del 2025). Sono un costo fondamentale per Alphabet la holding del gruppo guidato dal CEO Sundar Picai che nello stesso secondo trimestre ha fatturato solo con la ricerca di Google 54,19 miliardi di dollari su ricavi totali da 96,42 miliardi (Youtube compresa) con un utile operativo di 31,27 mld e un utile netto di 28,196 miliardi di dollari.
Dopo la pronuncia Google festeggia ed Apple le va dietro
Più di tutto parla il titolo, le Alphabet A ieri hanno fatto un balzo del 9,1% a 230,66 dollari, tra volumi imperiosi, oltre 103 milioni di pezzi contro una media giornaliera dell’ultimo mese di 33,4 milioni di azioni. Un nuovo record storico a 231,1 dollari. Una capitalizzazione a 2,77 trilioni di dollari.
Una buona seduta condivisa appunto anche con Apple, che ha fatto un +3,8% a 238,47 dollari, tornando sui livelli di marzo.
L’ottimismo si è diffuso sui mercati globali passando dal Nasdaq ai listini asiatici (dove per esempio ha fatto molto bene SoftBank).
Uno dei più grandi interrogativi di Wall Street degli ultimi mesi è stato risolto, in un modo meno tranchant del temuto, forse persino timido. D’altronde il mercato si sta già rivoluzionando da sé, senza bisogno di pensare agli spezzatini stile Sherman Act.