L'inflazione cala, ma come è messa l'Italia?

di Giovanni Digiacomo pubblicato:
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Inflazione e disoccupazione, Pil e debito, industria e PNRR, tanti dossier che rendono il quadro dell’economia italiana complicato, qualche numero per capire le ultime indicazioni e le prossime sfide

L'inflazione cala, ma come è messa l'Italia?

Inflazione in calo, ancora più in calo rispetto alle attese nel Bel Paese. La stima preliminare italiana mostra a marzo un 7,7% annuale, ben al di sotto dell’inflazione di febbraio (+9,1%) e delle stime degli analisti (8,2%).

Il più elevato dato dell’inflazione armonizzata HICP (IPCA in italiano) è all’8,2% e mostra anch’esso una flessione superiore al 9,8% di febbraio (sempre nella variazione anno su anno) e all’8,9% del consensus.

La stessa Istat parla di rapido rientro dell’inflazione e in effetti c’è una contrazione dei prezzi dello 0,3% a marzo su febbraio, mentre le attese immaginavano prezzi invariati e a febbraio c’era stata una crescita mese su mese dello 0,2%

Il trend generale, trascinato dai prezzi dell’energia: i beni energetici mostrano un -8,9% mese su mese, anche se rispetto a un anno fa c’è ancora un incremento del 10,8% (ma la variazione tendenziale a febbraio era del 28,2%!).

L’inflazione di fondo, la cosiddetta “core”, registra però ancora una crescita, anche se limitata, si passa da un +6,3% al 6,4% e in generale i valori rimangono elevati.
Al netto dei soli beni energetici l’inflazione mostra un passaggio dal 6,4 al 6,5%, ossia crescono gli alimentari freschi. C’è inoltre un incremento dal +4,4 al +4,5% dell’inflazione dei servizi, mentre gli alimentari complessivi restano su una crescita annua del 12,9% che non aiuta certo le famiglie sulla cui spesa i beni primari pesano di più.

C’è insomma in piccolo e con alcune variazioni una riproposizione del canovaccio europeo: un rapido ritiro dei prezzi complessivi grazie al calo dei prezzi energetici, ma anche un più insidioso radicamento inflattivo nei prezzi dell’inflazione sottostante, la più difficile da contrastare.

Proprio oggi i dati sull’inflazione UE, in calo a marzo al 6,9% dall’8,5% di febbraio nell’inflazione armonizzata. Tutto bene dunque in Europa? Per niente perché l’inflazione core al netto di energia e alimentari freschi cresce addirittura al 7,5% (in linea con le attese però) dal 7,4% di febbraio con il paniere di alimentari, alcool e tabacco che volano dal 15,4% dopo il rally del 15% (sempre a/a) di febbraio. Anche gli alimentari freschi crescono del 14,7% e i beni industriali non energetici sono aumentati del 6,6%

Tutto questo per dire che comunque, si prevede un periodo di tassi d’interesse elevati e per un lungo periodo e che i rincari avranno probabilmente tutto il tempo di logorare la domanda aggregata e produrre una recessione o almeno un rallentamento consistente anche in Italia. Ma quali sono i numeri del Bel Paese in questo contesto?

Italia, il Pil rallenta, rischio recessione tecnica

A inizio mese sono usciti i conti economici trimestrali italiani. Nei tre mesi il Pil italiano è calato dello 0,1% sul trimestre precedente, ma ha mantenuto una crescita dell’1,4% sul quarto trimestre del 2021.

Un dato quest’ultimo poco consolante perché il consensus era per una crescita del 2,6% in linea con il trimestre precedente.

Per fare un confronto rapido nel quarto trimestre il Pil italiano ha fatto, in termini tendenziali, meglio degli Stati Uniti (+1%), della Germania (+1,1%) e della Francia (+0,5%).

In termini congiunturali (quindi trimestre su trimestre) hanno invece fatto meglio di noi sia gli Stati Uniti (+0,7%), che la Francia (+0,1%), mentre la Germania ha fatto leggermente peggio (-0,2%).

Alla fine di marzo, se l’economia si fosse nuovamente contratta nel trimestre dopo il nostro -0,1% trim/trim di fine 2022, finiremmo dunque sia noi, che i tedeschi, in una recessione tecnica.

La definizione è proprio quella di due trimestri consecutivi di crescita congiunturale negativa, ma è il medio e il lungo periodo che preoccupano gli osservatori.

In soldoni comunque, considerando il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato con dati destagionalizzati, abbiamo chiuso il 2022 con un PIL di 1.746 miliardi di euro.

Italia, il problema del debito, tra tassi in crescita

Sul debito pubblico abbiamo da Banca d’Italia dati più aggiornati, a gennaio ha raggiunto i 2.756 miliardi di euro, non un record storico, ma comunque il 157,85% del Pil. Proprio questo debito, come si dice “monstre”, è ormai da molti decenni il maggiore pericolo per l’economia italiana e anche se viaggia a 24-25 miliardi di euro sotto i record storici, con la rapida crescita dei tassi d’interesse in corso minaccia i conti pubblici e i piani di investimento e sviluppo italiani nel medio e nel lungo periodo, forse anche un po’ nel breve.

Al riguardo occorre prendere un po’ di misure. Non tutto il debito pubblico è composto da titoli di Stato emessi sul mercato.

L’”outstanding” è la maggior parte, ma non tutto: i titoli di Stato sono circa 2.289 miliardi di euro e hanno una vita media di 7,04 anni. I BTP “tradizionali” la fanno da padroni, con oltre 1.691 miliardi, ma ci sono anche oltre 187,82 miliardi di BTP €I, ossia dei nuovi titoli indicizzati all’inflazione europea (ammontare rivalutato), e 84,92 miliardi di BTP Italia, titoli indicizzati invece all’inflazione italiana (anche in questo caso è l’ammontare rivalutato). Per definizione di breve sono gli oltre 111 miliardi di BOT e poi vendono per oltre 136 miliardi di CCTeu, titoli con durata tra i 3 e i 7 anni, con cedole variabili indicizzate all’Euribor a 6 mesi ed emessi in genere sotto la pari come normale nei CCT.

L’analisi per vita residua ci mostra 623,6 miliardi di titoli con durata residua sotto l’anno (quindi da rifinanziare a breve), 836 miliardi nel range tra 1 e 5 anni (ma “solo” 179 a tasso variabile), il resto oltre i 5 anni. Ma va precisato che sono scadenze calcolate su tutto il debito delle amministrazioni pubbliche, quindi anche quello non espresso in titoli di Stato contrattati sul MOT, sul totale di 2.276 miliardi insomma.

Italia, un po' di industria

Ma guardiamo il resto. Proprio oggi è uscito il dato sul fatturato dell’industria di gennaio: il mese ha mostrato una crescita dell’8,6% annuale (al netto degli effetti di calendario), ma ha anche segnato il primo calo mese su mese (-1,1%) dopo due mesi di crescita. Peraltro un dato su cui pesa soprattutto il -2,6% del fatturato estero, contro il -0,3% del domestico: metallurgia, attività estrattive e chimica in pesante rosso tendenziale (-2,2%, -6,9% e -7% rispettivamente), ma fanno bene e anche molto bene – sempre nel tendenziale – tutti gli altri settori, dai trasporti ai farmaceutici, al tessile, agli alimentari, all’elettronica per una crescita tendenziale complessiva appunto dell’8,6%.

Italia, il complesso dossier del lavoro (in numeri)

E il lavoro? È il dato più recente, appena ieri sono usciti i dati provvisori su febbraio di occupati e disoccupati. Il tasso di disoccupazione è rimasto stabile all’8%. Stabili sopra i 23,3 milioni i lavoratori italiani e anzi cresce il tasso di occupazione di 0,1 punti al 60,8%

Un’analisi più qualitativa si deve rifare al quarto trimestre del 2022, quando le ore lavorate sono cresciute a 10,918 miliardi (+3,1% variazione tendenziale su dati grezzi, +0,7% il congiunturale trimestre su trimestre), nell’ano anno si sono contati circa 43,28 miliardi di ore, molto più del 2020 della pandemia, ma meno del 2018.

Tornando a febbraio, stabile il tasso di inattività su un 33,8%, gli inattivi sono 12,5 milioni di persone tra i 15 e i 64 anni. Gli occupati uomini sono 13,5 milioni, le donne 9,8 milioni. Sempre a febbraio i dipendenti a tempo indeterminato sono 18,315 milioni (+3,5%), quelli a termine ben 2,97 milioni (-4,6%). Gli indipendenti sono 4,99 milioni con un calo tendenziale dello 0,4% La dinamica dell’occupazione è insomma molto solida.

Quella della retribuzione molto meno, perché a fronte di un’inflazione che ha toccato solo l’anno scorso livelli che non vedeva dai primi anni Ottanta, il Bel Paese ha la triste anomalia di una crescita reale dei salari in calo nel 2020 sui livelli del 2008, solo Giappone e Regno Unito mostrano qualcosa di simile nel G20 e l’Italia è di gran lunga la peggiore: il Global Wage Report 2022-2023 dell’ILO sottolinea: nel 2022 i salari reali dell’Italia erano del 12% inferiori a quelli del 2022! (Giappone -4%, UK -2%). Con il carovita rampante, c’è il concreto rischio di un impatto generalizzato sulla domanda.

L’Italia è un Paese in cui un quarto della popolazione (il 25,4%) è a rischio di povertà o esclusione sociale. Cosa significa? Significa che il 20,1%, circa 11,8 milioni di italiani, ha un reddito netto equivalente inferiore al 60% del reddito mediano. Questo è pari a 26.597 euro nel 2021 (-1,9%, sono 2.216 euro al mese), quindi quasi 12 milioni di persone quell’anno aveva un reddito inferiore a 10.519 euro l’anno.

Il tutto ovviamente con un incremento costante negli ultimi anni di emergenza pandemica e anche prima della disuguaglianza, regionali, nazionali, economiche fra territori e fra fasce di popolazione dentro i medesimi territori.

L’indice di Gini nazionale era a 0,329 nel 2020 in Italia, in pratica al diciannovesimo posto sui 26 Paesi dell’Unione Europea per cui era disponibile il dato quando è stato pubblicato il report dell’Istat.

Di persone in gravi condizioni di deprivazione materiale, ossia molto povere, ce n’è almeno 3,3 milioni.

Intendiamoci tra febbraio 2022 e febbraio 2023 sono stati creati 352 mila posti di lavoro, ma siamo anche un Paese in cui emerge sempre più chiaro un allarme “lavoro povero”, che si somma ad anomalie storiche, come i livelli Cassa integrazione elevatissimi.

Sono crollate le ore autorizzate di CIG ordinaria agli operai e agli impiegati da 51,7 milioni di ore di gennaio a 19,278 milioni di ore nel dicembre 2022. Dinamica simile per la CIG straordinaria da 30,7 milioni di ore al mese a gennaio a 7,5 milioni di ore a dicembre. La CIG in Deroga passa da 21,1 milioni a 2,2 milioni di ore.

Italia, le sfide in vista

Le sfide sono tante, anche immediate, come un accordo sul PNRR con l’Unione Europea: a fine aprile, in ritardo di un mese, dovrebbe arrivare la terza rata da 19 miliardi di euro, ma le incognite si moltiplicano.

Almeno tre dossier, tra i quali la riforma delle concessioni portuali sarebbero in discussione con Bruxelles e anche alcuni interventi sulla rete di teleriscaldamento, che pure tanto preme all’UE anche alla luce degli interventi di ieri sui target delle rinnovabili.

Restano al vaglio anche i piani urbani integrati e segnatamente il Bosco dello Sport di Venezia e lo stadio Franchi di Firenze. Un progetto di revisione degli investimenti dovrebbe essere entro il prossimo mese ripresentato anche alla luce del RepowerEU, ma il dialogo con l’Europa mostra diversi attriti, in parte previsti, in parte no.

Nel frattempo la sanità resta in profonda crisi, con una vera emergenza di cui i giornali parlano ormai da mesi. I rischi del sistema del regionalismo differenziato aggiungono preoccupazione tra operatori del settore e cittadini, dopo le inefficienze emerse già con l’attuale sistema durante la pandemia e dopo con la crescente carenza di personale per la quale poche soluzioni si vedono all’orizzonte.

La digitalizzazione del Bel Paese è appesa ancora al dossier della rete unica di TIM sulla quale pendono due offerte, ma sulla quale lo scetticismo prevale dopo anni di rinvii e promesse non mantenute. Con la differenza che oggi il digitale è vitale e occupa metà del PNRR.

Senza parlare di allarme climatico e siccità, che fra l’altro pesa anche sui costi energetici con la crisi dell’idroelettrico e sull’agricoltura ferita del Bel Paese.  Bloccato il superbonus per l’esplosione a oltre 60 miliardi di euro dei costi, c’è il rischio, anzi la probabilità, che l’edilizia freni e con essa il fotovoltaico che dal Superbonus era stato trascinato.

Secondo Qualenergia l’anno scorso 2 impianti su 3 erano stati installati con infatti con superbonus, ma la tabella di marcia dovrebbe crescere ancora ben oltre il record di 1,6 GW realizzati (1,1 GW quelli connessi).

I dubbi restano e le sfide non mancano. Le comunità energetiche da troppo poco hanno registrato il decreto per fare testo (anche se già molte sono partite), poi ci sono i casi storici come l’ex Ilvae l’ex Alitalia, e quelli contingenti, ma strutturali, come il codice degli appalti, le aliquote fiscali, o persino il Ponte sullo Stretto e le povere infrastrutture italiane (soprattutto al Sud, ma non solo).

La formazione specifica è diventata davvero un’esigenza concreta nell’industria e nella pubblica amministrazione, semplicemente non se ne può fare più a meno se si vogliono sbloccare tutti i dossier di cui sopra.

C’è tanto da fare insomma, sicuramente, a partire dalla pubblica amministrazione e dalla giustizia anche locale che è la leva di base per architettare i tanti passaggi epocali in sospeso.

I fondamentali dell’Italia sono ancora solidi, ma lo rimarranno soltanto se manterremo quella crescita che la transizione energetica potrebbe puntellare con scelte chiare e concrete. Non sarà facile, ma sarà necessario.