Tassi, settimana calda delle banche centrali, ecco cosa è successo
pubblicato:Alla fine solo la Bce ha alzato i tassi, ma è stata la Fed a deprimere i mercati. A sorpresa immobile la Banca d’Inghilterra, come da attese prudente la Banca del Giappone. Breve sintesi di un periodo caldo per l'inflazione e i tassi.

Si conclude oggi una fase caldissima delle banche centrali.
Banche centrali, le decisioni sui tassi
E’ cominciata 8 giorni fa, giovedì 14 settembre, con la decisione della Bce di alzare i tassi al 4,5% e si conclude con la scelta odierna della Banca del Giappone di lasciarli invariati su un -0,10%, senza neanche toccare il meccanismo di controllo della curva dei rendimenti.
Nel mezzo la decisione di mercoledì della Fed di lasciare i tassi al 5,5% e quella, a sorpresa, della Banca d’Inghilterra il giorno dopo di mantenerli al 5,25%
In definitiva solo la Bce ha alzato i tassi, ma sembra anche l'unica ad avere raggiunto il tasso terminale. Sarà così?
BCE, FED e mercati tra contraddizioni apparenti e reali
Normalmente quando i tassi salgono l’azionariato soffre e quando scendono festeggia, ma apparentemente in questi otto giorni è successo esattamente il contrario.
Quando la BCE ha alzato i tassi al 4,5% i mercati sono saliti: l’Eurostoxx 50 ha guadagnano un corposo 1,37%, l’S&P 500 lo 0,80%.
Quando invece la Fed ha messo in pausa la stretta, mantenendo i tassi al 5,5%, i mercati sono andati giù, con un Eurostoxx 50 in negativo (il giovedì 21) dell’1,47% e un S&P 500 che già il 20 perdeva lo 0,87% e come gli altri indici sarebbe sceso ancora in seguito.
La contraddizione è però soltanto apparente, perché, anche se la BCE ha alzato i tassi di un quarto di punto, il comunicato e la conferenza stampa dell’Eurotower hanno confermato che potrebbe essere stato l’ultimo rialzo, che nelle condizioni attuali l’elevato livello dei tassi raggiunto potrebbe, se mantenuto, far convergere le attese sull’inflazione verso l’obiettivo simmetrico del 2%
Al contrario la Fed, nella nota, nei dot plot e nella conferenza stampa di Jerome Powell ha sì messo in pausa i rialzi, ma anche fornito una visione pessimistica sullo sviluppo della congiuntura e ha lasciato intendere che ci sarà un prossimo rialzo dei tassi d’interesse entro la fine dell’anno.
Fed, prospettive poco accomodanti
Sul fronte della Fed c’erano, nelle proiezioni dello staff macroeconomico, elementi anche molto positivi come l’innalzamento monstre delle previsioni sul Pil 2023 degli Stati Uniti da un +1,0% a un +2,1% per il 2023. Anche la stima sul PIL 2024 cresce dall’1,1% all’1,5% Il tasso di disoccupazione atteso a fine anno è ridotto dal 4,1% al 3,8%.
Ma l’inflazione – ed è questo il punto cardine - invece cresce la PCE complessiva passa nelle stime 2023 dal 3,2% di giugno al 3,3% dell’ultimo forecast e bilancia così il miglioramento delle attese sulla PCE Core di quest’anno (al netto di alimentari ed energia) dal 3,9% al 3,7%
Da qui lo scossone che arriva ai mercati. Il livello appropriato dei tassi della Fed viene ora posto al 5,6% per il 2023, al 5,1% per il 2024 (con una crescita di ben mezzo punto dal 4,6% delle stime di giugno), al 3,9% nel 2025 (dal 3,4% della stima anteriore). Essendo al 5,5% i tassi attuali è implicita una ulteriore stretta al meeting di novembre o a quello di dicembre.
Dai dot plot, che contano in forma anonima le valutazioni dei membri del FOMC sul livello dei tassi più appropriato, emerge che 12 direttori pensano che a fine anno debbano essere al 5,625% e solo 7 che debbano scendere al 5,375%, una larga maggioranza insomma è ormai per un altro rialzo.
E non è meno preoccupante il fatto che le previsioni per i prossimi due anni vedono ancora tassi molto elevati a lungo, se la mediana è al 5,1% l’anno prossimo e si salirà al 5,6% entro la fine del 2023, c’è spazio per appena due tagli alla fine del 2024.
Si tratta di uno scenario peggiore di quello scontato dal mercato, d’altronde neanche il FedWatch Tool del CME, che calcola le probabilità di movimenti nella politica monetaria sulla base dei future sui Fed Fund a 30 giorni, incorpora ancora questo scenario di stretta persistente della Fed.
Eppure nessun banchiere centrale finora ha mostrato segnali di distensione, anche perché i prezzi delle materie energetiche stanno risalendo pericolosamente da tempo e il WTI dai minimi di fine giugno ha messo a segno un rally di oltre il 34,5% e i recenti massimi a 93,74 euro hanno messo sotto attacco importanti resistenze statiche. Se l’energia cresce, la pressione inflazionistica la seguirà inevitabilmente e questo i banchieri centrali lo sanno molto bene.
Powell con le sue strette decise dell’ultimo anno ha compresso l’inflazione complessiva PCE dal 6,6% del marzo 2022 (quanto cresceva al ritmo più veloce dal 1982) al 3,3% di luglio. La PCE Core nel frattempo si mantiene al 4,2%, ma – come previsto dagli economisti – l’inflazione in questa fase si dimostra più appiccicosa e persistente del previsto, per cui occorre decisione.
E con i suoi toni cupi Powell ha dimostrato che non intende arretrare dalla mission sui prezzi. In sintesi ha confermato la pausa attesa, ma ha sorpreso i mercati in senso “hawkish” sulle prospettive.
La Banca d’Inghilterra e la decisione di lasciare le cose come stanno
In molti si aspettavano un rialzo dei tassi della Banca d’Inghilterra dal 5,25 al 5,50%, ma il governatore Andrew Bailey ha deciso di lasciare le cose come stanno. Era reduce da 14 rialzi consecutivi e diversi osservatori pensavano che potesse fare un ragionamento del tipo “rialzarli ora per non rialzarli più”, ma non è andata così.
Ci sono sintomi sempre più diffusi dell’impatto della stretta monetaria sull’economia britannica, ma l’inflazione complessiva di agosto ha rallentato al 6,7% e la core CPI è scesa al 6,2%: entrambi restano livelli davvero troppo distanti dal target del 2% e questo non potrà che creare degli squilibri.
L’economia britannica scivola verso la crisi conclamata: il Pil ha perso lo 0,5% a luglio e le prospettive macroeconomiche si stanno deteriorando oltre la Manica.
La Banca del Giappone è un caso a parte
Un caso particolarissimo è invece quello della Banca del Giappone: come noto è l’unica banca mondiale di peso ad avere ancora oggi una politica monetaria ultra-accomodante – tassi al -0,10% riconfermati stamane - dettata dal fatto che il Paese è reduce da decenni di deflazione e ha quindi una struttura dei prezzi totalmente diversa dagli altri.
Ma le cose stanno cambiando. L’inflazione complessiva del Sol Levante ha toccato un picco al 4,3% lo scorso gennaio e poi si è gradualmente ridotta fino al 3,2% di agosto. L’inflazione core lo scorso mese si è posta al 3,1%, sono livelli elevati rispetto al target del 2% e subiscono l’impatto degli alimentari spesso di importazione nel Paese. L’inflazione si sta dimostrando viscosa, ma la situazione sembra sotto controllo, anzi.
Il meccanismo di controllo della curva dei tassi (YCC) avviato nel 2016 e il quantitative easing in atto dal 2001 potrebbe presto essere abbandonati per avviare una restrizione più decisa. Dato il peso dell’export giapponese sull’economia generale, ogni impulso al rafforzamento dello yen sarà ponderato con molta cura e anche il target del 2% di inflazione dovrà essere raggiunto con un percorso sostenibile alla luce delle incertezze dell’economia globale. In altre parole prudenza.