Downgrade di Fitch, gli Stati Uniti perdono la corona

di Giovanni Digiacomo pubblicato:
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Da AAA ad AA+, le traiettorie della spesa pubblica Usa non piacciono a Fitch. Secondo gli analisti non gli Stati Uniti non meritano più il massimo, ma per il mercato è così da un pezzo e poi sui conti gli ultimi numeri sembrano più generosi

Downgrade di Fitch, gli Stati Uniti perdono la corona

Il downgrade degli Stati Uniti è nel bene o nel male Storia. Poco conta che in queste ore le reazioni del Treasury siano state meno che timide, sostanzialmente indifferenti (in attesa dell’avvio di Wall Street).

Il downgrade degli Stati Uniti è stato un fulmine a ciel sereno e poco conta che anche il dollaro reagisca poco o nulla.

In finanza non funziona esattamente così. La storia che se un albero cade in una foresta non fa rumore, se nessuno lo sente, non vale.

I numeri - se ci sono - tornano sempre alla mano in finanza e, se il mercato non reagisce subito, alla fine le curve dei grafici un incalcolabile apporto dalla nuova notizia presto o tardi l’avranno o magari già l’hanno incorporata, come si dice e non ce n’eravamo accorti.

Ecco cosa è successo.

USA, il downgrade, i numeri, i perché

Nel tardo pomeriggio americano del primo d’agosto 2023, ore 23:13 in Europa, l’agenzia di rating Fitch dirama un una nota in cui comunica il downgrade del rating degli Stati Uniti da AAA ad AA+.

Se i mercati fossero rapidamente impazziti, magari con vendite convulse sui Treasury e un deprezzamento del dollaro, oggi i titoloni invaderebbero le cronache agostane: si sprecherebbero ed eviterebbero al contempo con cautela stereotipi come “fine di un’epoca” o citazioni come “la caduta degli dei” o anche accenti più emotivi come “lesa maestà” e persino – in qualche blog alla periferia dell’Impero – “il dollaro sanguina”.

Ma non è andata così e l’albero per ora davvero non fa rumore.

Eppure Fitch lo ha messo nero su bianco, gli Stati Uniti non meritano più di giocare nella Prima serie del debito pubblico, quella a tripla A che sembrava spettargli in maniera onoraria, se non fiscale.

Più di un broker alla notizia avrà fatto spallucce: da anni il rendimento del Treasury non è basso come dovrebbe essere per un AAA, costa troppo e sconta dunque un rischio ben superiore a quello della pagella di un primo della classe. Spesso nell’ultimo decennio il Treasury decennale - per intenderci - ha registrato rendimenti superiori a quelli del BTP decennale italiano.

Eppure il Treasury Usa era AAA, il massimo della sicurezza, e il BTP italiano era (ed è) BBB, l’ultimo gradino prima del junk bond.

Roba da chiedersi che senso abbiano ancora questi report sul merito di credito delle nazioni.

Comunque i numeri. Cosa ha spinto Fitch al grande affronto?

Ovviamente si parla di debito pubblico e quindi sono le sue metriche quelle che contano.

Gli Stati Uniti hanno raggiunto ormai un rapporto debito/Pil del 112,9%, in grande calo dal 122,3% del picco in pandemia, ma comunque ben oltre il pre-pandemia che sostanzialmente vedeva Pil e debito generalmente sullo stesso livello.

Chi ricorda che il debito/Pil italiano è sul 145% (dato di fine 2022) storcerà il naso: “Si può gestire” verrebbe da aggiungere con la coscienza un po’ pelosa di quelli del banco in fondo. Ma la questione è di pagella e quando si parla poi di debito pubblico, quindi di tenuta delle finanze pubbliche, di spesa e di politica di fa balistica.

Nel senso che la traiettoria è tutto quello che conta, come ci hanno insegnato i dibatti sul debito greco e non solo.

E la traiettoria di Fitch vede il debito/Pil Usa rimontare al 118,4% entro il 2025, mentre la media dei titoli AAA è del 39,3% e quella dei titoli AA è del 44,7%

Fitch pensa che dal 3,7% di deficit/Pil (il deficit conteggiato è quello generale del governo federale) del 2023 si passerà al 6,3% nel 2023, al 6,6% nel 2024 e al 6,9% nel 2025. Quindi il tema non è il fallimento, non si parla di fallen angel, ma di classifica.

Quel posizionamento per gli Stati Uniti non sembra più corretto, soprattutto se si pensa che gli interessi sul debito dovrebbero raggiungere il 10% delle entrate entro il 2025 e se si valuta che potrebbero raggiungere il 3,6% del Pil entro il 2033 (oggi il loro peso sul prodotto interno lordo è la metà).

C’è poi una chiara irritazione per un tema che definire stucchevole è poco, ossia quello dell’annuale balletto sul tetto del debito da alzare, da rinviare, da negoziare tra governo e Congresso fino all’ultimo momento, minacciando lo stop dei servizi pubblici e il blackout della prima economia del mondo.

Insomma uno spettacolo indecoroso su cui Fitch fa bene a dissentire, senz’altro qualcosa da cambiare nel rispetto dei rapporti tra i poteri dello Stato americano. È questione secondaria in sé, ma il posizionamento all’inizio della nota di Fitch la dice lunga.

Ma la questione è appunto più ampia. Secondo Fitch l’economia USA andrà in moderata recessione tra il quarto trimestre del 2023 e il primo del 2024. Le cause concatenate sono ovviamente da ricercare nella stretta creditizia, nell’indebolimento degli investimenti e della domanda dei consumatori (leggasi politica della Fed). In realtà Fitch non pensa proprio a una recessione nel senso di un Pil negativo, ma a un forte rallentamento all’1,2% dal 2,1% del 2022.

E qui subito gli irritati del rating (sentiment che l’Italia conosce benissimo) sottolineano: ma come pochi giorni fa il Pil Usa del secondo trimestre ha stupito al rialzo con un +2,4%, come è possibile? Lo stesso Jerome Powell ha appena detto di non prevedere più una recessione e anche il Fondo Monetario Internazionale ha alzato le previsioni sul 2023 a un +1,8% di Pil.

Chiedetelo a Fitch i suoi numeri non sono però quelli di un disastro annunciato, semplicemente forse tentano di restituire credibilità a metriche che dai tempi della Grande Crisi vivono un forte deficit di autorevolezza.

Oltretutto Fitch fa ampio riferimento a un ufficio autorevole come quello del Congressional Budget Office (CBO), il famigerato ufficio parlamentare del budget Usa che di recente ha aggiornato le sue stime sull’economia Usa.

Così viene voglia di sbirciarci e si trovano numeri ancora peggiori! Per il secondo semestre 2023 il CBO prevede un +0,4% annuale del Pil, per l’intero 2023 un +0,9%. Poi si sale al +1,5% nel 2024 e al 2,4% nel 2025. Al contempo disoccupazione in crescita al 4,1% quest’anno, al 4,7% l’anno prossimo e quindi al 4,5% nel 2025. Roba che Fitch era meglio, anche se il CBO conduce un’analisi veloce sull’impatto della stretta monetaria su consumi e crescita e praticamente non tocca il tema del debito.

Fitch, la reazione politica Usa

Ovviamente Fitch raccomanda con le sue proiezioni di ridurre la spesa pubblica, afferma che anche il Fiscal Responsibility Act pur agendo sul corpus delle spese discrezionali non in Difesa (cioè il 15% della spesa federale) nel breve termine si traduce in limitati risparmi di 70 miliardi di dollari nel 2024 e di 112 miliardi nel 2025. Quel 3,9% del Pil pari a 1,5 trilioni di dollari è una promessa al 2033 afferma Fitch citando il CBO.  

Secondo Fitch inoltre anche i tagli delle tasse del 2017 che scadranno nel 2025 probabilmente saranno rinnovati o fissati e ci saranno sfide dal Social Security Fund e dall’Hospital Insurance Trust Fund che si materializzeranno nei prossimi anni.

In definitiva dunque una serie di spese governative sono in forse e vista la politica di promesse e in qualche caso di atti dell’attuale presidenza di Joe Biden a sostegno di una serie di voci “democratiche”, ma anche del contrasto geopolitico alla Cina, era (quasi) inevitabile che ci fosse anche una reazione politica.

Così il ministro dell’Economia Usa (lì si chiama Segretario al Tesoro) la ex Fed Janet Yellen ha definito il downgrade “arbitrario” e “datato”. E in effetti gli ultimi spunti macroeconomici non sembrano proprio preparare quella contrazione che Fitch immagina, anche se il trend in calo è confermato.

La traiettoria dell’albero è ancora da definire insomma. Per ora nessun rumore.

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