Tassi d'interesse, crollano le possibilità di un taglio della Fed a settembre
pubblicato:L'ultima settimana di luglio ha registrato segnali importati non solo sul fronte dei dazi, ma anche su quello della politica monetaria della Fed e il ripiegamento avviato dall'euro dopo l'accordo scozzese potrebbe anche avere dei vantaggi. Qualche istantanea su un paesaggio estremamente dinamico

Nonostante le pressioni del presidente statunitense Donald Trump, l’ultima riunione dell’altro ieri (il 30 luglio 2025) della Federal Reserve ha confermato i tassi d’interesse nella forchetta tra il 4,25% e il 4,50%. E' il livello deciso dalla Fed con l'ultimo taglio dello scorso 18 dicembre, circa un mese prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca.
Lo stesso Trump è tornato a criticare con asprezza il presidente della Fed Jerome Powell, subito dopo la (non) decisione sui tassi, ma il mercato ha preso rapidamente nota di quanto accaduto.
Lo scenario macroeconomico è turbolento. Lo stesso rapporto preliminare del Bureau of Economic Analysis pubblicato qualche ora prima della conferenza stampa di Powell lo ha confermato icasticamente con una inversione a U dei dati: nel secondo trimestre del 2025 il Pil USA è cresciuto del 3%, ben oltre il 2,5% delle attese degli analisti e agli antipodi del -0,5% del primo trimestre.
Lo stesso rapporto del Bureau del Dipartimento del Commercio precisa che in gran parte questo balzo della crescita è dovuto al calo delle importazioni, che si sottraggono dal Pil e che invece erano esplose nel primo trimestre, quando gli operatori facevano incetta di prodotti dall’estero prima che scattassero i dazi.
Lo stesso comunicato della Fed sui tassi lo evidenzia nelle prime parole: “Sebbene le oscillazioni delle esportazioni nette continuino a influenzare i dati, gli indicatori recenti suggeriscono che la crescita dell’attività economica si sia moderata nella prima metà dell’anno. La disoccupazione rimane bassa, le condizioni del mercato del lavoro solide. L’inflazione resta in qualche modo elevata”.
Se si mettono insieme i numeri della prima metà dell’anno, si è passati dal 3,4% della prima metà del 2024 a una crescita statunitense dell’1,25% nella prima metà del 2025, ma è un conto viziato in partenza dai movimenti straordinari sulla bilancia commerciale che falsano il quadro.
Vanno però evidenziati tutti i passaggi del caso per comprendere le reazioni che ancora oggi si registrano sui mercati e potrebbero cambiare il paesaggio dei prossimo mesi.
Tassi d'interesse, il mercato allontana le ipotesi di un taglio già a settembre
Alla riunione della Fed si registrano le prime defezioni: Chris Waller e Michelle Bowman, nominati dallo stesso Trump nel primo mandato come per ironia della sorte anche Powell, si ribellano alla linea comune della Fed e votano contro: preferirebbero abbassare il costo del denaro Usa. E’ la prima volta che due membri del direttivo che per la Fed si chiama FOMC votano contro apertamente contro la linea comune sui tassi dal 1993.
Un segnale importante di un cambiamento in corso, ma alla conferenza stampa Jerome Powell tiene la linea e non si sbottona su eventuali tagli dei tassi d’interesse nei prossimi mesi, che pure, fino a quel momento, i mercati scontano sempre di più.
“Riteniamo il nostro attuale approccio alla politica monetaria appropriato a contrastare i rischi inflattivi. Siamo anche attenti ai rischi sul fronte occupazionale del nostro mandato”.
I mercati, appunto, prendono nota e le banche d’affari cominciano a rifare i calcoli. Oggi il FedWatch tool del CME assegna ancora per il prossimo meeting di settembre della Fed il 61% di probabilità di tassi invariati nell’attuale range “4,25%-4,50%”. Appena una settimana fa assegnava invece per quella data un 61,9% di probabilità a un taglio alla forchetta 4,00%-4,25% e il 1° luglio le probabilità di un taglio erano del 73,2% sulla base delle rilevazioni di questo strumento che è basato sui prezzi dei Future sui Fed Fund a 30 giorni.
Ma il quadro generale è ovviamente composto anche dalle trattative commerciali sui dazi che hanno visto in Scozia domenica scorsa una bozza di accordo e oggi l’annuncio della Casa Bianca del nuovo assetto agostano con il 15% per partner come l’Europa, il Giappone e la Corea del Sud.
Forex, l'euro fa un passo indietro sul dollaro e lancia un segnale
La reazione sul fronte valutario del Forex è stata imperiosa ed è stata confermata nelle ultime sedute. Il cambio euro/dollaro, che dai minimi di gennaio a 1,017 era arrivato a inizio luglio a 1,182 con un balzo del 16%, proprio dall’accordo europeo sui dazi, ossia da lunedì scorso, ha avviato un movimento importante che sembra annunciare una nuova fase di ripiegamento della moneta unica dopo gli eccessi delle ultime settimane.
Dopo i segnali inviati a inizio mese, tecnicamente l’EUR/USD ha confermato la violazione al ribasso della trendline in forza dal 28 febbraio e già cedente lo scorso 15 luglio.
Soltanto questa settimana il cambio EUR/USD segna un ribasso del 3,2% sui valori di venerdì scorso e la maggior parte degli osservatori attribuisce questo indebolimento alle prospettive di impatto economico dei dazi sul Vecchio Continente, anche se, naturalmente non si può trascurare la prospettiva di tassi della Fed più elevati più a lungo del previsto.
Già prima di questa ridda di novità JP Morgan ha pubblicato un approfondimento in cui valuta le prospettive per le maggiori valute alla luce dell’attuale complesso scenario.
Meera Chandan, co-head della divisione valutaria globale della banca d’affari Usa, sostanzialmente ritiene che l’impatto dei dazi peserà sulla crescita globale e avrà effetti inflattivi per gli Stati Uniti e deflattivi per il resto del mondo, con la conseguenza - tra l’altro - di una minore attrattività del biglietto verde.
Secondo JP Morgan anche il Big Beautifull Bill di Trump potrebbe non portare grandi vantaggi: “Sul fronte fiscale gli Stati Uniti hanno varato il mega provvedimento dell’Amministrazione Trump, ma non c’è alcuna evidente spinta fiscale positiva diretta alla crescita, se si tiene conto dei proventi dai dazi. Questo probabilmente cede il passo all’inclinazione ribassista del dollaro, dato l’implicito premio a termine più elevato e le dinamiche di domanda e offerta ancora deboli per il mercato del debito pubblico statunitense”.
In definitiva a marzo i ricercatori di JP Morgan sono tornati ribassisti sul dollaro per la prima volta dopo quattro anni e hanno invece rivalutato alcuni fattori positivi per l’Europa, come il budget federale tedesco che promette diversi spunti fiscali espansivi e i segnali di interruzione del ciclo di riduzione dei tassi della BCE.
Nell’attuale contesto JP Morgan però, dopo un consolidamento, si aspetta un ulteriore rafforzamento dell’euro sul dollaro e stima addirittura un EUR/USD a 1,19 a settembre e a 1,22 nel marzo 2026.
Sono previsioni stilate a inizio settimana, prima che sul mercato prendesse consistenza il timore crescente di un maggiore impatto dei dazi sull’economia europea e prima che la Fed smontasse le previsioni degli analisti su prossimi tagli dopo l’estate.
Con il passo indietro dell’euro di questa settimana le imprese europee in realtà prendono fiato, perché il rincaro della moneta unica, come hanno rimarcato da diversi osservatori, si traduce in un doppio dazio per gli esportatori. Sulle trimestrali però l'impatto della valuta inizia a vedersi.
Con un 15% di dazi USA e un 12% di ribasso dell’euro sul dollaro, in pratica il fardello per le imprese UE raddoppia.
E’ ancora senz’altro troppo presto per fare dei conti, anche l’assetto definitivo dei dazi è lontano dall’essere chiaro e le stesse banche centrali sulla carta hanno delle armi spuntate, perché ufficialmente la determinazione del livello dei cambi non rientra nel loro mandato; tuttavia è chiaro che Bruxelles non potrà mantenere l’equilibrio emerso nell’ultima settimana di luglio.
Sicuramente quando nel mezzo della tempesta dei dazi la presidente della BCE Christine Lagarde parlava di un “momento globale dell’euro” non pensava all’attuale scenario.