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Petrolio, un’ipoteca pesante sul taglio dei tassi

di Giovanni Digiacomo pubblicato:
7 min

Vampate del greggio crepano lo scenario. Le banche centrali non possono tagliare i tassi, se l'inflazione risale e tutti devono fare un passo indietro (a partire dai mercati azionari)

Petrolio, un’ipoteca pesante sul taglio dei tassi

Monta l’attenzione per le materie prime sul mercato ed è comprensibile. Cacao e rame sono sui record, l’oro corre, il petrolio risale la china e già si confronta con i lontani massimi del giugno 2022. Molti investitori si lasciano ingolosire.

Ma c’è di più. La crisi del Mar Rosso non è mai passata e in Ucraina e in Medioriente i conflitti si aggravano creando quella tensione che purtroppo spesso si traduce in rincari delle materie prime.

Così il rialzo dell’inflazione, che già era appiccicosa prima dell’aggravamento della crisi geopolitica multipla in corso, diventa di nuovo una preoccupazione concreta.

Petrolio in rialzo e taglio dei tassi in forse

Lo scenario rapidamente volge al peggio per chi aspetta ansiosamente l’avvio del rialzo dei tassi.

Ieri le parole del numero uno della Fed di Minneapolis Neel Kashkari hanno gelato i mercati e contribuito al ribasso degli indici di Wall Street, dei mercati asiatici e in queste ore di quelli europei. Potrebbe essere uno storno salutare, potrebbe essere qualcosa di più duraturo.

Per Kashkari:

“Se continuassimo a vedere questi movimenti laterali dell’inflazione [ossia se non scende come speriamo, ndr], allora mi chiederei se questi tagli dei tassi siano necessari”.

Come a dire che la forza dell’economia americana e l’inflazione USA preoccupano: Kashkari mette insomma in dubbio i tagli dei tassi d’interesse quest’anno. Si potrebbe rinviare tutto all'anno prossimo e per i mercati è una doccia fredda.

Un segnale che rende conto dell’estrema mutevolezza dello scenario. Kashkari era di quelli che negli ultimi dot plot stimavano due tagli entro l’anno contro una mediana di tre tagli emersa dai documenti della Fed dell’ultimo meeting.

Certo in seno alla Fed c’è anche Loretta Mester (Cleveland) che invece ha appena dichiarato che la banca centrale si avvicina al livello di fiducia necessario ad avviare un taglio dei tassi nei prossimi mesi.

Ma dietro i soliti confronti tra falchi e colombe della banca di Washington c’è un cambiamento concreto del mercato già incorporato nei prezzi. Visto dall’esangue scenario economico europeo il dibattito può apparire surreale: l’economia americana e soprattutto il lavoro vanno troppo forte per pensare che il ribasso ulteriore dell’inflazione non sia a rischio.

Il rebus dell'inflazione che riporta al petrolio

A restare sui dati puntuali l’inflazione PCE, quella più guardata dalla Fed, a febbraio è addirittura cresciuta, dal 2,4 al 2,5%. Quella “core”, senza energetici e alimentari, è invece scesa, ma è ancora al 2,8%, ben al di sopra dei target. Il tema della vittoria sul carovita è insomma ancora troppo attuale.

E questo riporta chiaramente alle materie prime, perché gira e rigira, oltre agli stipendi che preoccupano molto Stati Uniti ed Europa, c’è il costo di energia e commodity, che poi sono la componente che ha scatenato la crisi.

E si ritorna al petrolio.

Ma anche il petrolio è opaco

Un report di oggi di UBS si pone la domanda d’oro: il rincaro del petrolio greggio può continuare?
La risposta è nì. Il rally c’è stato (e questo già preoccupa): il Brent ha guadagnato il 18% dall’inizio dell’anno e il WTI il 21%

I prezzi sono tornati su massimi che non vedevano da anni, le guerre si espandono con la crisi del Mar Rosso e l’Ucraina che attacca le raffinerie russe, quindi i rischi sul fronte dell’offerta ci sono.

Anche perché l’Opec+ ha appena evidenziato una elevata adesione dei Paesi del cartello ai tagli della produzione programmati. I tagli volontari Opec+ sono previsti a 2,2 milioni di barili e sembrano guadagnare efficacia in termini di adesione tra i membri. I rialzi dei prezzi inoltre rendono più facile l’adesione dei riottosi al piano condiviso.

Secondo UBS qualcuno comunque già a giugno potrebbe mollare e ridurre i tagli attuati, ma la produzione fuori dall’Opec+ (quindi gli Stati Uniti in primis) sembra orientata a una riduzione rispetto all’anno scorso e il mercato potrebbe comunque rimanere teso sui fondamentali dell’equilibrio tra domanda e offerta che poi è driver sovrano delle quotazioni del greggio.

La domanda di petrolio infatti resta forte. L’Agenzia internazionale dell’energia (IEA) ha alzato le stime sulla crescita della domanda nel primo trimestre di ben 270 mila barili a 1,7 milioni di barili al giorno. La ricostruzione delle scorte ha anche sorpreso gli osservatori (è domanda aggiuntiva) e con la stagione delle gite in auto negli Stati Uniti e dei viaggetti in aereo ci si avvia verso la fase calda dei consumi. Per UBS la crescita della domanda globale di greggio nel 2024 potrebbe raggiungere gli 1,4 milioni di barili e battere la media del primo ventennio degli anni Duemila posta a 1,2 milioni di barili. Uno smacco per chi punta sulla transizione energetica, ma uno scenario tutt’altro che stabile e affidabile.

Chiaramente anche le politiche monetarie avranno un peso: se il dollaro scende perché tagliano i tassi, il petrolio tendenzialmente reagisce con un rialzo.

Nonostante tutta la sua analisi, la stessa UBS afferma di non ritenere che il Brent possa salire ancora molto, ma di pensare, piuttosto, che possa tenere la quota. Il suggerimento operativo è di tenerlo in portafoglio per diversificare o anche, per i più audaci, vendere il rischio di calo dei prezzi del Brent o aggiungere posizioni sulle scadenze più lunghe del future. Proprio su questo fronte troviamo però diverse perplessità.

Petrolio, future in backwardation promettono ribassi

Come noto lo strumento principe per l’investimento sul petrolio (sia finanziario che industriale) è quello dei future. Sono contratti che permettono di puntare su un prezzo del petrolio a una determinata scadenza, se si compra un barile di Brent a 90,84 dollari per il prossimo giugno 2024 (questi i prezzi attuali sull’ICE) e poi il petrolio sale ancora, si può rivendere con un profitto. Con massimi delle ultime ore in zona 91,3 dollari, è messa seriamente nel mirino la resistenza a 92,86 dollari del 14 giugno 2022. Oltre si aprirebbero prospettive di rialzo molto importanti, ma è tutta da vedere.

Come detto, infatti i future sono su diverse scadenze contrattate che automaticamente quindi aggiornano gli operatori sulle prospettive di mercato, sul sentiment degli investitori. Bene se si parte dal future sul Brent con scadenza a luglio 2024 (89,84 $) e si va avanti fino dicembre 2024 ($ 85,37) e a giugno 2025 ($ 81,37), è tutto un calo costante e deciso.

E’ una struttura dei prezzi che si chiama backwardation e – come è facile comprendere – indica che il mercato pensa che i prezzi del petrolio scenderanno. E questo è un segnale che non si può ignorare.

D’altronde i motivi ci sarebbero.

Da quelli più spiccioli - Biden non permetterà eccessivi rincari della benzina nel semestre prima delle elezioni presidenziali - a quelli più economici (sebbene la domanda di petrolio greggio prevista per Cina e Stati Uniti sia in crescita, sono sempre più diffuse le tecnologie alternative al greggio e in fase di tensione hanno già dimostrato di potere calmierare gli eccessi).

C’è poi quel motore dei consumi che sono le famiglie, ad esse tutto riporta.
Se ci sono guerre e incertezze, si spaventano e riducono i consumi.
Se ci sono rialzi dei prezzi concreti o percepiti, attuali o previsti, riducono i consumi.
I tassi elevati già comprimono le condizioni operative delle imprese creando anche un forte monitoraggio dei costi energetici, ma sono le famiglie e soprattutto quelle meno abbienti che subiscono subito eventuali rincari di energia o cibo.

E le materie prime stanno crescendo di prezzo rapidamente. Anche su questo fronte quindi l’incertezza prevale.

Il petrolio è salito molto e ci saranno delle conseguenze, anzi ci sono già, ma è solo la punta dell’iceberg, perché è in buona compagnia: rame e stagno sono cresciuti di quasi il 19% negli ultimi sei mesi, l’alluminio di quasi il 10%

Sono brutti segnali per tutti, bruttissimi per chi lotta l’inflazione e in particolare per chi la contrasta in Europa dove la crescita non brilla come negli Stati Uniti e le guerre sono al confine.

A giugno dopo i nuovi dati sulla variazione del costo del lavoro, la BCE deciderà se avviare un taglio dei tassi. Con l’economia tedesca in crisi e un ciclo economico generale fra la stagnazione e la recessione, mentre i debiti pubblici elevati comprimono la spesa pubblica, sarebbe logico prendere in seria considerazione un taglio dei tassi, anche prima o nonostante le decisioni della FED.

L’autonomia di Francoforte è un dato di fatto, ma in pratica dovrà essere ponderata non poco: se la BCE tagliasse i tassi prima della Fed influenzerebbe i cambi, deprezzando probabilmente l’euro sul dollaro, con il rischio che quella inflazione che si vorrebbe tenere lontana dal Vecchio Continente, rientri tramite le materie prime che sono tutte in dollari. Un rischio non da poco.

Senza considerare che nel frattempo nuove vampate dei prezzi potrebbero di nuovo mettere in crisi l’approccio dell’Eurotower. 

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