Dazi Usa, Trump alza ancora la posta con la Cina

di Giovanni Digiacomo pubblicato:
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Si rischiano contromisure incrociate su soia e olio da cucina e mentre i mercati riprendono fiato, i gruppi europei riprendono a investire negli Stati Uniti. Stellantis annuncia investimenti da 13 miliardi di dollari e si unisce a una lunga lista. Ecco il punto

Dazi Usa, Trump alza ancora la posta con la Cina

I mercati riprendono fiato, ma la nuova fase della guerra dei dazi, tutta concentrata sull’asse tra Washington e Beijing non accenna a mostrare quei segnali di distensione che pure molteplici osservatori continuano a pronosticare.

Soia contro olio: le nuove minacce di Trump dopo le ultime manovre della Cina

L’ultima escalation è stata sulla soia: Trump ha accusato la Cina di boicottare l’America:

“Credo che la Cina non stia comprando intenzionalmente la nostra soia, così causando problemi ai nostri agricoltori, è un Atto Economicamente Ostile. Stiamo valutando di interrompere il business dell’olio da cucina con la Cina e altri elementi commerciali, come contromisura”

Così ha postato il POTUS sul suo Truth Social.

La soia è il primo bene agricolo d’esportazione degli States con ben 24,5 miliardi di dollari venduti nel mondo nel 2024 e oltre la metà (12,6 mld) acquistati dalla Cina (dati di USDA riportati da USA Today).

Allo stesso tempo nel 2024, sempre secondo i dati USDA riportati dal quotidiano statunitense gli Stati Uniti hanno acquistato circa 1,27 milioni di tonnellate di olio da cucina dalla CIna (circa il 43% dell’export mondiale cinese di questo prodotto).

Già negli scorsi giorni Trump aveva minacciato forti rialzi dei dazi in vista di nuove previste sanzioni cinesi nei porti attivi con l’interscambio USA e ieri invece era emerso che la Repubblica Popolare aveva sanzionato cinque sussidiarie USA dell’armatore sudcoreano Hanwha Ocean.

L’impressione assai diffusa sui mercati è che lo scontro commerciale tra Cina e Stati Uniti sia più duraturo di quanto previsto dagli accordi in essere (intesa su dazi USA del 30% e dazi cinesi al 10%), con il rischio che il punto di caduta si sposti quantitativamente e qualitativamente.

Dazi Usa, tra sfuriate e tit-for-tat

Decisamente più abituato alla gestione della complessità Xi Jinping sta spostando il campo di gioco nel terreno strategico delle terre rare, che lo vede in vantaggio indiscutibile con il 70% dell’estrazione e il 90% della lavorazione in questo mercato, e sui temi politicamente sensibili, ma più manovrabili come la soia. L’approccio di Trump oscilla tra l’esuberanza dai tassi subito al 100% al Tit-for-tat, termine in voga in questi mesi, ossia alla risposta colpo su colpo e con proporzionalità, che è poi termine derivante da una strategia della teoria giochi impiegata per risolvere il problema del dilemma del prigioniero ripetuto.

Tornando alla pragmatica d’obbligo Beijing ha aggiunto all’accordo non solo negli ultimi giorni, ma anche nelle ultime settimane, un surplus rilevante che è sostanzialmente la dimostrazione di potere portare avanti il confronto commerciale con gli Stati Uniti.

Non lo vogliamo, ma non lo temiamo è la vulgata, che sembra avere avuto un punto fondamentale di sviluppo nell’irritazione sui chip di Nvidia venduti alla Repubblica Popolare solo al terzo o quarto livello della tecnologia secondo Howard Lutnick, parole destinate al pubblico nazionale Usa ansioso di dimostrazioni muscolari da Washington, ma destinate fatalmente a irritare Beijing su quel piano strategico che è la tecnologia. Non a caso la risposta passa dall’hardware delle terre rare indispensabili per l’elettronica moderna.

Così mentre Washington architetta un ecosistema dell’intelligenza artificiale che passa dagli intrecci inediti (Nvidia+Intel+OpenAI+Oracle+Broadcom…), Beijing fa quel che sa fare meglio, risalire la filiera e togliere il terreno sotto i piedi al tech occidentale, come già fatto con l’automobile. A poco servono le accuse di Scott Bessent al Financial Times (La Cina? "Vogliono portarci tutti giù con loro"), è chiaro che pur nelle alleanze storiche, la battaglia protezionistica è made in Usa e sponsorizza un tutto contro tutto basato sui rapporti di forza. C'è tempo fino al primo novembre in teoria perché scattino i nuovi dazi USA al 100% in risposta ai nuovi vincoli cinesi sulle terre rare (sostanzialmente controlli e verifiche che potrebbero essere catalogati tra le tariffe non doganali), ma lo scenario è in rapida evoluzione.

Dazi Usa, Stellantis annuncia investimenti per 13 miliardi di dollari

Mentre in Europa e non solo grossi gruppi industriali spostano sempre più massicciamente le produzioni negli Stati Uniti per andare incontro ai desiderata di Trump, la Repubblica Popolare erode i margini di tutti con i propri vantaggi a monte delle supply chain. E di oggi la notizia degli investimenti da 13 miliardi di dollari di Stellantis negli Stati Uniti nei prossimi 4 anni. Un nuovo motore (termico) a 4 cilindri e 5 mila posti tra Illinois, Ohio, Michigan e Indiana che dovrebbero permettere di aumentare del 50% addirittura la produzione statunitense di veicoli finiti, è il più grande investimento mai fatto dalla casa guidata da Antonio Filosa negli Stati Uniti, il mercato più importante del gruppo.

Anche se il gruppo continua a subire forti campagne di richiamo dalla NHTSA (U.S. National Highway Traffic Safety Administration), da poco è emerso il richiamo di 298.439 Dodge Dart, le ultime novità sono incoraggianti sul fronte di un mercato dove nel terzo trimestre il gruppo è cresciuto per volumi del 6% trascinato dalle Jeep.

Dazi Usa, gli investimenti intanto di moltiplicano (almeno negli annunci)

Non saranno i 17 trilioni di dollari di investimenti reclamati da Trump negli Stati Uniti in 8 mesi, ma certo è innegabile che queste strette commerciali stanno portando un numero crescente di imprese a investire nella manifattura statunitense. La Casa Bianca ne indica per 8.800 miliardi di dollari con un lungo elenco che sarà da aggiornare perché Stellantis è ancora a 5 miliardi e che comprende comunque anche diversi big statunitensi così come la bresciana Il Pastaio, che però appartiene da tempo a The Riverside Company. Nell’elenco non compaiono gli investimenti miliardari di Prysmian e della sua Encorewire. Non compaiono gruppi molto presenti come Buzzi o Interpump.

L’Europa d’altronde rischia di fare la fine del vaso di coccio tra Cina e Stati Uniti, come in parte dimostrato dall’intesa commerciale su dazi al 15% che per molti è stata un’imposizione e che è stata affiancata da promesse di investimenti inverosimili.

La Cina ha cominciato a rispondere adesso, con il peso delle sue catene di fornitura strategiche e diversi analisti paventano che possa dimostrare di potere tenere testa a Trump e alla sua Amministrazione.

Sull’Europa, che pure è il secondo mercato del mondo e potrebbe più agevolmente colpire le produzioni Usa, magari recuperando nella tecnologia e nei servizi rimasti indietro, pochi sono disposti a scommettere.

Eppure è chiaro che presto toccherà anche a Bruxelles dire la propria su attività strategiche come i servizi tech o le forniture energetiche o gli armamenti o ancora le questioni geopolitiche chiave di Gaza e l’Ucraina. Per ora si procede un po’ a vista, con gli annunci finché si può, ma anche con gli sgambetti, come quello delle case italiane che producono negli Stati Uniti e accusano di dumping i pastai nostrani, con il rischio di portare i dazi sulla pasta italiana al 107% e di far rincarare il prodotto anche qua. Finiremo per comprare da Trump anche la soia?

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