Petrolio, l’Opec+ lo manda ancora più giù

di Giovanni Digiacomo pubblicato:
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Crollo dei prezzi del 30% metà gennaio, ma è la paura dei dazi più che il drill-baby-drill. Il cartello oggi affonda i corsi e Trump prepara un viaggio in Medioriente. Arabia Saudita e Russia guardano i prezzi con apprensione

Petrolio, l’Opec+ lo manda ancora più giù

Uno dei pochi risultati dell’amministrazione Trump è stato il crollo del prezzo del petrolio greggio. Dai massimi di metà gennaio, a 75,5 e a 78,1 dollari rispettivamente, il WTI ha perso circa il 32% e il Brent il 29%.

Ma le ragioni dell’affondo non sono, come vorrebbe Trump, nel “drill-baby-drill” che promette lande di perforazione negli scisti nordamericani e fiumi di greggio ad abbassare il prezzo alla pompa per l’automobilista votante a stelle e strisce.

La ragione degli strappi al ribasso è invece nelle prospettive di deterioramento globale dell’economia che hanno già spinto i mercati a tagliare le stime di crescita del Pil mondiale e quindi le previsioni sulla domanda globale del barile.

Petrolio, le ombre sull’economia raffreddano il prezzo

A metà aprile, nella fase più calda della guerra dei dazi, il Fondo Monetario Internazionale ha segato le previsioni sul Pil degli Stati Uniti nel 2025 dal 2,7 all’1,8%, quelle sulla Cina dal 4,6% al 4% e quelle sull’Eurozona dall’1% allo 0,8%

Il veicolo della globalizzazione negli ultimi 80 anni sono state le portacontainer ovviamente alimentate combustibili pesanti a derivati del petrolio, per cui il sabotaggio delle filiere globali è un attacco indiretto al petrolio greggio e al suo impiego principale, i trasporti.

Va detto che anche il dollaro forte, valuta d’elezione (per ora), delle materie prime, greggio compreso, ha messo del suo nella svalutazione dell’oil con il suo classico rapporto inverso con il barile.

Petrolio, il cartello dell'Opec+ aumenta la produzione

Ma oggi c’è un altro attore che rivendica un ruolo di primo piano nelle quotazioni del greggio: l’Opec+. Il cartello allargato alla Russia ha deciso sabato di alzare di 411 mila barili di petrolio al giorno la produzione a partire da giugno sui livelli di maggio.

Il Cartello da solo copre quasi un terzo della produzione mondiale di petrolio. Lo guidano l’Arabia Saudita, con un nuovo target di produzione a giugno di 9,36 milioni di barili, e la Russia, che si porterà a 9,16 milioni di barili al giorno.

La manovra shock ha battuto di misura le attese: 411 mila barili in più, appunto, contro una previsione degli analisti più graduale, nell’ordine dei 140 mila barili. Reuters ha calcolato che adesso con la nuova produzione Opec+ cumulata ad aprile, maggio e giugno potrebbe raggiungere i 960 mila barili di greggio in più, quindi il 44% di quei 2,2 milioni di barili al giorno che il cartello allargato vuole complessivamente riportare in produzione.

Petrolio, non è pacifico

La questione è anche (e soprattutto) di politica internazionale. Per molti dei Paesi dell’Opec+, a partire dall’Arabia Saudita e dalla stessa Russia, le entrate derivanti dalla vendita di greggio sono il carburante principale di bilanci pubblici altrimenti insostenibili.

L’Arabia Saudita può estrarre il petrolio con costi intorno ai 25 dollari al barile, ma secondo il Fondo Monetario Internazionale avrebbe bisogno di prezzi del greggio intorno ai $ 90 e secondo l’Arab Gulf States Institute una media dei prezzi di 65 dollari al barile potrebbe significare per Riyad un deficit pubblico di 56 miliardi di dollari, pari al 5,2% del Pil 2025. Per questo da poco i sauditi hanno precisato:

Possiamo convivere anche con prezzi più bassi del petrolio

Per tranquillizzare i mercati che vedono che i conti non tornano.
Con la decisione di sabato Riyad lo ha confermato.

Ma anche Mosca è alla finestra. Il ministro delle Finanze Anton Siluanov ha appena segato le stime sui proventi di petrolio e gas nel 2025 a 101,47 miliardi di dollari: circa il 3,7% del Pil di un Paese che spende già circa il 6,3% del proprio Prodotto Interno Lordo per la guerra contro l’Ucraina.
Per far quadrare i conti difficili del greggio in questa fase di sanzioni incrociate, Mosca calcola il budget su una quotazione della qualità di petrolio Urals di 56 dollari al barile (già in calo dai 69,7 dollari delle stime precedenti). Ma il greggio degli Urali negli ultimi giorni è scivolato a 54,7 dollari e il rischio di nuovi affondi è concreto.

Per Washington il petrolio in dollari è una portaerei di rango nella finanza globale. Col fracking gli Stati Uniti già da Obama hanno raggiunto l’indipendenza energetica globale e anzi con la guerra in Ucraina hanno rafforzato l’esportazione di gas verso l’Europa consolidando il nuovo ruolo di esportatore di energia. Per questo l’import strategico di gas dagli States è una della armi diplomatiche preferite a Bruxelles nel negoziato con Trump.

Ma lo shale oil si estrae a circa 60-70 dollari al barile, contro i 25 dollari dell’Arabia Saudita. Per stare in piedi l’industria energetica Usa ha bisogno di prezzi più elevati di quelli del mercato in questa fase. Per questo il dialogo con l’industria petrolifera globale è strategico per Washington

Per questo il prossimo giro del 15 maggio di Trump in Medioriente sarà molto importante. Non solo per vendere 3,5 miliardi di dollari di missili a Riyad, ma magari anche per vedere se i legami arabi con la Russia aprono percorsi negoziali su Ucraina o Israele. Il tutto accompagnato ovviamente da una review sul greggio.

Petrolio, oggi uno strappo dei prezzi e nel breve sono attesi altri cali

Intanto oggi la notizia del nuovo greggio dell’Opec+ (in un mercato già – come visto – in forte ribasso) ha creato uno strappo sui grafici.

Il Brent “europeo” segna un calo dell’1,77% a 60,37 dollari dopo un primo affondo a 58,5 dollari, ben sotto la soglia psicologica dei 60.

Il WTI “americano” segna una flessione del 2,27% a 57,11 dollari al barile, dopo un minimo a 55,53 dollari che liquida per ora le ambizioni a un ritorno sopra i 60.

Né le prospettive sono di recupero. Tecnicamente sia il future sul Brent, che quello sul WTI sono in contango, ossia scontano prezzi futuri ancora più bassi di quelli attuali. Il petrolio europeo è visto a 59,86 dollari a ottobre e il WTI è previsto a 55,7 dollari a novembre.

Purtroppo è uno scenario coerente con quello di una domanda globale in affanno tra economie in deterioramento.

Di buono c’è che alla pompa gli automobilisti americani ed europei spendono meno, così le stime sull’inflazione vengono corrette al ribasso e si moltiplicano le possibilità di interventi espansivi delle banche centrali.

Ma che per arrivarci sia necessario passare da una frenata dell’economia mondiale, non piace a nessuno.